martedì 17 dicembre 2013

La più ampia maggioranza mai vista nella storia repubblicana - 2

Nei giorni scorsi il governo Letta ha ottenuto un nuovo voto di fiducia in seguito al cambio di maggioranza (il passaggio all'opposizione dei gruppi parlamentari del PDL). Peccato nessuno si sia soffermato su di un fatto del tutto evidente:
il governo Letta dispone oggi di una maggioranza più ampia di quella avuta da qualsiasi governo Berlusconi
Ed è pure, per citare le parole dello stesso Letta, una maggioranza più compatta e coesa. Cioè, tradotto in un italiano semplice, ha i numeri per far passare tutto, comprese le riforme costituzionali, senza bisogno di negoziare con alleati che remano contro. Perché NCD e centristi non sono oggi in condizione di mettere il veto su nulla, a meno di volersi suicidare politicamente, visti i sondaggi. E non ha neanche bisogno di negoziare con Grillo, come invece sta cercando di fare Renzi: se vuole fare riforme buone, che le approvi a colpi di maggioranza, per usare un lessico di sinistra. Se sono buone, gli Italiani le confermeranno in sede di eventuale referendum. Se invece Renzi e Letta hanno la coda di paglia e intendono fare riforme mediocri, ma solo con le opposizioni per far sì che un referendum non sia possibile, allora è un altro discorso.

I numeri: alla Camera il governo Letta ha ricevuto la fiducia di 379 contro 212. Il governo Berlusconi del 1994 ebbe 304-245, quello del 2001 ebbe un 351-261, quello del 2008 ebbe un 335-275. Al Senato il governo Letta è passato con 173-127, mentre il governo Berlusconi del 1994 ebbe un 159-153, quello del 2001 ebbe un 175-133 e quello del 2008 ebbe un 173-137. I voti presi in considerazione sono quelli delle prime fiducie, quelle più "numerose".

martedì 10 dicembre 2013

È una follia - 3

C'è chi stigmatizza coloro, fra i quali c'è chi scrive, che hanno criticato la sentenza della corte costituzionale prima di conoscerne le motivazioni. Benché il rilievo sia formalmente corretto, nella sostanza, a meno che la corte non ci stupisca tirando fuori un improbabile motivo d'incostituzionalità a sorpresa, cioè che sino ad ora non era stato previsto da nessuno, i motivi addotti sono o noti (basta rifarsi al dibattito - tutto ideologico - contro il porcellum) o desumibili dal ricorso che ha portato alla sentenza.

E allora andiamo a leggerlo questo ricorso. Questo ne è, per quanto riguarda il premio di maggioranza, il passaggio chiave:
La normativa denunciata è quindi viziata di illegittimità costituzionale perché consente che le maggioranze non siano genuina espressione del voto espresso dal corpo elettorale, ma che si formino in base all’attribuzione di un premio secondo un criterio arbitrario, irrazionale e casuale (assenza di una soglia minima di suffragi).
Questo sistema viola il principio di cui all’articolo 48 della Costituzione dell’eguaglianza anche sostanziale del voto, in base al quale non può darsi valore o peso diverso ad un voto a seconda del risultato elettorale, e può premiare formazioni politiche sebbene siano meno rappresentative con grave distorsione della volontà degli elettori, della rappresentanza politica e dell’assetto e del funzionamento delle Camere.
In parole semplici viene detto che siccome la Costituzione stabilisce il principio di uguaglianza dei cittadini anche quando votano alle elezioni, detto principio verrebbe rispettato solo se tutti i voti venissero tradotti in seggi in misura eguale, cioè secondo il principio della rappresentanza proporzionale. Per cui se una legge elettorale si distacca da detto principio, quanto più se ne distacca, tanto più essa è incostituzionale.

Che dei ricorrenti di sinistra (tale si è definito l'Avv. Bozzi), e quindi per formazione ideologica influenzati dal positivismo di tradizione europea continentale e viceversa assai digiuni del pensiero liberal-conservatore di matrice anglosassone, facciano questi ragionamenti non stupisce. Stupisce che una corte costituzionale di un paese occidentale li faccia propri.

Perché sostenere, come hanno fatto i ricorrenti, che il premio di maggioranza, siccome non è subordinato a una soglia minima di suffragi, allora sarebbe arbitrario, irrazionale e casuale è un ragionamento che non sta in piedi. Supponiamo infatti che la legge preveda una soglia minima. Quale? Il 40% andava bene? E perché chi raggiunge il 40% sarebbe degno di vedere la sua rappresentanza in parlamento salire al 55% a scapito del 60% degli elettori che invece vedrebbe la sua rappresentanza scendere al 45%? Non sarebbe anche quello un criterio arbitrario, irrazionale e casuale?

E poi perché sarebbe legittimo dare la maggioranza assoluta dei seggi a chi vincesse col 40%, mentre sarebbe legittimo negarla a chi vincesse col 39%? Ovvero perché stabilire la soglia a quota 40? E se invece ci fosse stata una soglia al 30%? O al 25%? Perché una soglia più bassa sarebbe troppo bassa? In base a cosa stabiliamo questa soglia minima?

Il problema alla base è che una legge o si ispira al principio della rappresentanza proporzionale oppure si ispira al principio maggioritario dell'indicazione, sia pure indiretta, di chi governa e di chi sta all'opposizione. Ma se il sistema è ispirato a questo secondo tipo (e il porcellum, ancorché, come spesso accade, fosse un mix delle due ispirazioni, prevalentemente lo era) allora non ha alcun senso rimproverargli di non ispirarsi all'altro!

Diciamolo in parole ancora più semplici: dire che un premio di maggioranza è  arbitrario, irrazionale e casuale se non è subordinato a una soglia minima di suffragi equivale a dire che un sistema maggioritario è incostituzionale se non corrisponde al risultato che si avrebbe avuto con la proporzionale. Ma lo scopo del maggioritario è proprio quello di alterare il risultato che altrimenti si avrebbe avuto con la proporzionale!


E quindi si ritorna alla considerazione che ho già fatto: la corte costituzionale ha interpretato la carta secondo l'impostazione ideologica dei suoi membri, e in base a essa ha proibito il maggioritario in Italia. Quello che il 75% degli Italiani scelsero nel referendum Segni-Pannella del 1993. Siamo alla restaurazione della prima repubblica.

venerdì 6 dicembre 2013

È una follia - 2

Nell'attesa di saperne di più, questo è il comunicato stampa della Corte Costituzionale:

Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione.

La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza.

Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici.

Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Partiamo di lì. Due illegittimità costituzionali: il premio di maggioranza e la lista bloccata.

  • Premio di maggioranza - La corte non ha detto che il premio di maggioranza è incostituzionale "nella parte in cui" o "nella misura in cui non si applica a" o "se attribuito a prescindere dal raggiungimento di una certa soglia" o altre forme di parziale incostituzionalità. Se avesse ragionato in quei termini il premio di maggioranza sarebbe tuttora in vigore, ma sottoposto a condizioni.
    Dal comunicato si evince che la corte ha dichiarato il premio di maggioranza incostituzionale tout court. Che lo è in quanto tale. Ovvero che ogni premio di maggioranza è incostituzionale, perché, si può supporre, determina disuguaglianze fra i cittadini facendo pesare alcuni voti più di altri. Quello è in altre parole lo stigmatizzare la violazione del principio di rappresentaza proporzionale.
    Se ogni premio di maggioranza è incostituzionale, la conseguenza è che tale sarà ogni sistema elettorale maggioritario.
  • Lista bloccata - Se la corte l'ha dichiarata incostituzionale evidentemente ritiene che violi il principio democratico, la sovranità popolare, laddove ne limita l'esercizio alla scelta di una lista e delle relative candidature così come predisposte dal partito.

Veniamo alle conseguenze. La prima è che ora è in vigore una legge elettorale proporzionale con sbarramento al 4% alla Camera e all'8% al Senato. Tale sbarramento non si applicherà se si verificheranno certe condizioni (essere il primo partito sotto dette soglie di una coalizione che abbia conseguito una certa percentuale).

Una prima considerazione è che detto sbarramento, pur nel suo piccolo, è anch'esso un meccanismo distorsivo della rappresentanza proporzionale. In soldoni è un mini premio di maggioranza distribuito ai partiti più grandi. Che può dare la maggioranza assoluta a un partito o a una coalizione senza che questi l'abbiano avuta nelle urne. Ma su questo la Corte non ha statuito.

Una seconda considerazione è che questi nuovi principi costituzionali enunciati dalla corte, oltre a restringere l'ambito di scelta del parlamento riguardo alla futura legge elettorale, se ve ne sarà una, potrebbero applicarsi ad altre leggi elettorali in vigore: il sistema maggioritario con cui si eleggono i consigli comunali e provinciali, quelli con cui vengono eletti i consigli regionali, nonché, in quanto sistemi maggioritari, le elezioni dirette di sindaci, presidenti di giunte provinciali e regionali.

Una terza considerazione è che il parlamento non potrà scegliere di tornare al mattarellum: innanzi tutto la quota proporzionale alla camera era basata su liste bloccate; poi nei collegi alla camera e al senato venivano proposte agli elettori delle candidature "bloccate". Mi spiego: una lista bloccata è una lista "verticale" in cui si viene eletti secondo la posizione in cui ci si trova, dall'alto verso il basso, a seconda di quanti voti prende il partito. Nel mattarellum, ogni partito o coalizione presentava una lista "orizzontale" di 475 candidature sul territorio nazionale, una per ogni collegio, in cui venivano eletti a seconda del consenso del rispettivo partito in quel luogo. Per cui un candidato della sinistra passava se correva in un collegio rosso, faceva invece atto di presenza se correva in uno bianco, e viceversa, con delle reali possibilità limitate alle sole zone "in bilico".

Si dirà "ma gli elettori votano per la persona". Sì, buonanotte: andate a vedervi i risultati dell'ultima volta che si è votato coi collegi uninominali. Per esempio nel 2001, collegio del senato a Milano, chi credete che abbia vinto fra un già discusso Dell'Utri ed Emma Bonino?
Il voto per la persona funzionerebbe se non ci fossero i finanziamenti ai partiti ma ai singoli candidati come negli USA, se sulla scheda non ci fosse il simbolo del partito e soprattutto se il voto in Italia non fosse per schieramento ideologico.

E poi l'elettore si trovava un candidato imposto, senza possibilità di sceglierne un altro a meno di votare per un altro partito. E addirittura gli poteva toccare un candidato di un altro partito coalizzato col suo.

Comunque sia il mattarellum è incostituzionale (secondo la nuova dottrina) anche e soprattutto perché viola il principio della rappresentanza proporzionale. Se Tizio prende il 35%, Caio il 30%, Sempronio il 25% e Mevio il 10%, Tizio col 35% si porta a casa il 100% del collegio, mentre il 65% degli elettori resta senza rappresentanza. E se la stessa cosa avvenisse in ogni collegio il partito di Tizio con solo il 35% dei voti avrebbe una maggioranza bulgara in parlamento.

Quindi anche la proposta Renzi (mattarellum con premio di maggioranza al posto dela quota proporzionale) è incostituzionale. Lo è anche il sistema britannico e pure quello francese a doppio turno. Infatti la maggioranza assoluta che il vincitore del secondo turno consegue è tale solo perché all'elettore viene imposta la più "bloccata" delle scelte che ci sia: quella fra due candidati che non sono riusciti a farsi votare dalla maggioranza degli elettori. È un'elezione talmente "bloccata", che spesso l'affluenza degli elettori al secondo turno (che invece è il più decisivo dei due) cala vistosamente.

Moriremo proporzionali. Non è la fine del mondo; è solo il sancire che d'ora in avanti, anche sul piano formale, gli elettori conteranno di meno: non ci saranno più "ribaltoni" o "commissariamenti" ma anzi le manovre di palazzo saranno la normalità.

giovedì 5 dicembre 2013

È una follia - 1

Pensate: era da fine 2005 che avevamo una legge elettorale incostituzionale, e non lo sapevamo. Non lo sapevano neanche i nostri professori di diritto costituzionale, almeno la stragrande maggioranza di loro: chi stigmatizzava il "Porcellum" lo faceva perché nel merito la riteneva una cattiva legge, perché le liste bloccate davano più potere ai partiti e meno agli elettori, perché il premio di maggioranza al senato non garantiva una maggioranza, e così via.

Basterebbe questo per affermare che quella di ieri è una sentenza politica, l'ennesima della corte costituzionale, l'organo che che applica non la costituzione formale, ma quella materiale.

Questa sentenza è una follia, è una vergogna. Questo agire della corte costituzionale è un abuso delle sue prerogative. Di solito quando qualcuno abusa di un diritto o di un potere questo prima o poi gli viene tolto. Con le buone o con le cattive.

Il minimo che si possa dire è che con questa sentenza anche la corte costituzionale entra ufficialmente nella lista delle cose da riformare per rendere il paese governabile.

Tornerò a scrivere sul merito delle questioni giuridiche della sentenza. Sulle conseguenze politiche ha efficacemente scritto Christian Rocca.

mercoledì 27 novembre 2013

Sperimentare per prevenire

La soglia di povertà in Italia è stabilita a 1000 euro al mese per una coppia o a 1630 euro per una famiglia con due figli a carico. Nel 2008 l'ISTAT stimava che 1.126 mila famiglie (per un totale di 2 milioni e 893 mila individui) fossero sotto quella soglia. Dati del 2008: oggi temo che quei numeri siano più alti.

Facciamo finta che siano tuttora buoni e supponiamo che lo stato voglia dare 300 euro al mese in media ai più poveri. Stanziando 40 milioni di euro all'anno, come deciso dal governo Letta circa 11 mila persone beneficeranno di quel sussidio. Cioè pari a meno dello 0.4% dei poveri in Italia.

E allora cosa fa il governo Letta per da un lato annunciare alla stampa l'introduzione del reddito minimo e dall'altro giustificare uno stanziamento di fondi palesemente irrisorio? Dice che si tratta di una sperimentazione. Come se i destinatari di tale misura fossero delle cavie sottoposte a una terapia di cui si ignorano gli effetti. E che quindi è opportuno sperimentarne gli effetti solo su di un campione del 0.4% al fine di salvaguardare il restante 99.6% da spiacevoli effetti collaterali imprevisti.

Ma cosa ci sarà mai da sperimentare nella concessione di un sussidio di povertà? Forse Maria Cecilia Guerra, Viceministro del Lavoro e delle Politiche sociali, tanto brava a pontificare quando scriveva su lavoce.info, ora che invece è all’opera non è sicura degli effetti di questa misura?

E poi perché si scelgono i poveri che vivono nelle grandi città? Forse sono più poveri o meritevoli degli altri? O forse li si immagina più probabili elettori del PD?

Non lo leggerete su nessun giornale o portale web, ma definirla “sperimentazione” è solo un modo di gettare del fumo negli occhi della gente. L'effetto annuncio con la sperimentazione intorno. Per poi andare a vantarsi nei talk show di avere introdotto il reddito minimo, mascherando però il fatto che viene finanziato con lo 0.5% (40 milioni di euro) delle risorse che invece occorrerebbero (7 miliardi).

Un popolo di coglioni si merita un governo di pezzenti.

Cuneo fiscale o produttività?

Scrive Francesco Forte, di certo il più lucido commentatore economico di cose italiane in questi anni, a proposito del recente commento del Wall Street Journal sulle politiche del governo Letta:
I mali che il Wsj individua e le terapie che suggerisce, e che io condivido, sono assai differenti da quelle correnti che circolano nella Confindustria e fra i “riformisti” del Pd, che in parte le riecheggiano. Non c’è in questo articolo neanche un cenno al falso rimedio che essi sostengono: la riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro. Per me bugiardo surrogato della crescita della produttività che si può attuare solo fuoriuscendo dallo stato neo corporativo.
(...)
Mi pare condivisibile la diagnosi del quotidiano conservatore in cui c’è come punto centrale la non crescita che dipende dal mancato aumento della produttività, come detto. Questa è a sua volta collegata alla triade della mancata riforma del mercato del lavoro, della giustizia e della Pubblica amministrazione, dove albergano i tre grandi blocchi neo corporativi: di sindacati e Confindustria, della magistratura e delle burocrazie ai tre livelli di governo (centrale, regionale e locale) con le aziende ad essi connesse. Un’enfasi diversa da quella sulla regola del 3 per cento del bilancio da cui sono ossessionati il governo Letta e Bruxelles. Ma è appunto dalla produttività che dipende la riduzione del deficit e soprattutto del debito.
Riepilogando,
  • questi sono i tre principali problemi che frenano l'economia italiana:
  1. il mercato del lavoro
  2. la giustizia
  3. la pubblica amministrazione
  • e questi sono i tre blocchi che ne impediscono la riforma:
  1. i sindacati (e la Confindustria)
  2. la magistratura
  3. i dipendenti pubblici (e le aziende private che vivono di commesse pubbliche)
Si noti che i tre problemi sono quelli che Berlusconi indicò come tali, ma che non è riuscito a risolvere, mentre i tre blocchi sono proprio quelli che lo hanno avversato.

La morale della favola è chi governa e chi governerà potrà avere successo se sconfiggerà quei tre blocchi (o li convincerà a collaborare) al fine di riformare quei tre grandi problemi.

Ci sono le condizioni? Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Forte si limita a fare questa considerazione:
mi pare sbagliata la tesi del Wsj secondo cui si potrebbe evitare il camposanto, mediante Matteo Renzi. Lui non ha mai affrontato la “triade di riforme” di cui il quotidiano americano è paladino. Ma il Wsj ha ragione nel dire che queste riforme trovano un grave ostacolo nel Pd
Comunque vada prima o poi il PD, guidato o meno da Renzi, si troverà davanti il dilemma se affrontare il problema della produttività  riformando davvero il paese (e quindi mettendosi contro i suoi elettori) oppure uscendo dall'Euro (e quindi rimangiandosi le sue ben radicate convinzioni).

martedì 26 novembre 2013

A proposito di larghe maggioranze

A proposito di larghe maggioranze e conseguenti aspettative da parte della gente. Scriveva l'autorevole Angelo Panebianco sul Corriere della Sera (il grassetto è mio):
Una buona legge maggioritaria (ammesso, e non concesso, che egli riesca ad ottenerla) non basta per dare al Paese un buon governo. È una condizione necessaria, ma non sufficiente. Senza una riforma costituzionale che, per lo meno, superi il bicameralismo simmetrico (due Camere con uguali poteri) e dia qualche strumento di azione in più al primo ministro, un governo efficace ed efficiente non è possibile. Anche con una buona legge elettorale Berlusconi (come chiunque altro), in assenza di interventi sulla Costituzione, rischia domani di fallire nella azione di governo, pur disponendo, eventualmente, di una larga maggioranza parlamentare.
In realtà l'articolo di Panebianco non è di qualche anno fa, ma di oggi. E la parola in neretto Berlusconi l'ho messa io al posto della parola Renzi. Credo di aver reso l'idea.

lunedì 18 novembre 2013

I conti della serva

Forse ai più è sfuggito, ma questo fine settimana, oltre a segnare la scissione nel PDL, è stato il secondo anniversario della caduta del governo Berlusconi. La fine del suo governo ha comportato una specie di appoggio esterno dello stesso ai due governi che gli sono succeduti, quello Monti e quello Letta. Un appoggio talvolta leale, talvolta no. Comunque si voglia giudicare l'atteggiamento del PDL rispetto a questi due governi una cosa la si può dire: da due anni non è più Berlusconi a fare le scelte di governo, dato che egli si è limitato solo o ad avallarle a posteriori o a criticarle. Solo in un caso, la sospensione dell'IMU sulla prima casa, ha cantato vittoria imponendola agli alleati di governo. Poca cosa in verità.

Se quello riassume l'influenza di Berlusconi rispetto alle scelte di governo degli ultimi due anni, forse è giunto il momento di cominciare a fare un primo bilancio: a conti fatti cosa gli Italiani hanno guadagnato da quest'estromissione? Da fine 2011 il debito pubblico in percentuale del PIL è passato dal 120.8% al 132.27% (stima FMI), il tasso di disoccupazione era al 8.5% e oggi è al 12.5%: quattro punti secchi. Il PIL (che nel 2011 ha avuto una crescita, seppur simbolica, dello 0.375) nel 2012 è diminuito del 2.37% e quest'anno (sempre stima FMI) diminuirà di un altro 1.78%.

Il governo Monti, che con il decreto salva-Italia si proponeva di anticipare il pareggio di bilancio al 2013 ha lasciato al governo Letta un deficit al 3%. E c'era chi nel 2012 immaginava un inesistente effetto Monti.

Scrive oggi Angelo Panebianco sul Corriere della Sera a proposito della bocciatura da parte dell'UE della legge di stabilità:
non siamo ritenuti affidabili, credibili, il che ci rende deboli nelle negoziazioni, ci toglie la forza che sarebbe indispensabile per strappare condizioni a noi più favorevoli.
Nemmeno la tanto decantata credibilità, forse la principale keyword del gergo politico nel 2011, abbiamo (ri?)acquistato.

Ora Berlusconi presumibilmente si prepara a prendere le distanze dal governo Letta. Se non altro almeno la Camusso la smetterà di dargli pubblicamente la colpa. Suppongo però che sarà poco credibile quando la prossima volta tentasse di darla ad Alfano. Forse è tempo che qualcun altro cominci a sua volta ad assumersi le sue responsabilità.

venerdì 8 novembre 2013

Su Alitalia - 3

Ieri Matteo Renzi, ospite della trasmissione Servizio Pubblico, ha ricostruito a suo uso e consumo la vicenda della mancata vendita di Alitalia al gruppo Air France-KLM. In un paese senza memoria storica come il nostro anche questo è possibile. Fra le altre cose il sindaco di Firenze ha detto:
«Non si può dire che su Alitalia non è colpa di Berlusconi, ma della Cgil. Berlusconi ogni volta dà la colpa ad altri, ma ha fallito lui perché non ha fatto le cose, non perché c’erano gli altri a ostacolarlo»
«Alitalia il governo Prodi voleva darla ai francesi nel 2008. Per me era  un errore darla ai francesi. Bisognava andare verso i russi, il far east. Ma comunque Berlusconi bloccò l’operazione in nome della italianità»
A dire il vero il governo Prodi nel 2007 ci aveva provato a venderla ad Aeroflot. E pure ad Air China, ma il giovane sindaco di Firenze queste cose pare che non le sappia. E poi, se venderla ai Francesi era un errore, allora, quali che fossero le motivazioni, chi si oppose, secondo la logica di Renzi, aveva ragione ad opporsi.

Ma quel che è più grave è che Renzi ha descritto la vicenda in un modo che si può sintetizzare così:
  1. Il governo Prodi voleva vendere a Air France;
  2. A gennaio 2008 il governo cadde;
  3. Da quel momento il governo Prodi fu solo un esecutore delle volontà del dominus di fatto, Berlusconi, che, forte del favore dei sondaggi, di lì a poco avrebbe vinto le elezioni;
  4. Per cui, fra febbraio e marzo, contava solo la volontà di Berlusconi;
  5. Ergo è lui il responsabile di tutto.
E poi, per replicare a Maurizio Belpietro, che gli aveva fatto notare che fu l'opposizione dei sindacati, fra cui la CGIL, a far saltare la vendita a Air France, ha aggiunto la battutina:
«L’operazione Alitalia l’ha fatta la Camusso d’accordo con Berlusconi…»
Peccato che nel 2008 la Camusso non fosse a capo della CGIL (lo sarà a partire dal 3 novembre 2010), ma che ne fosse segretario Guglielmo Epifani. Il quale, come ha fatto notare recentemente Claudio Cerasa de Il Foglio, ebbe a dire a trattativa conclusa coi capitani coraggiosi:
“Si è raggiunta un’intesa complessiva assolutamente positiva, anche tenendo conto di alcuni chiarimenti e aggiunte”. (intervista al Corriere della Sera del 25 settembre 2008)
Lo stesso Epifani, sei mesi prima durante i giorni della trattativa, disse, sempre al Corriere della Sera, che la proposta di Air France era
«Un ricatto. Un triplo ricatto: al governo, al sindacato a Malpensa. Perché a tutti viene chiesto un sì obbligatorio. Nel senso che se uno risponde no o avanza altre proposte, allora diventa responsabile del fallimento della compagnia. Ma Air France, governo e Alitalia che hanno già concordato tutto tra loro, escludendo il sindacato, non possono pensare di scaricare su di noi la responsabilità delle sorti dell'azienda»
E fece questa contro-proposta:
«Il governo e l'azienda trovino il modo di garantire la vita dell'Alitalia per altri 60-70 giorni. Si avrebbero diversi vantaggi. Si potrebbe sviluppare il confronto oltre la data ultimatum del 31 marzo dettata da Spinetta. E si arriverebbe al nuovo governo. Il che ci metterebbe al riparo da ripensamenti rispetto a un eventuale accordo firmato prima delle elezioni. Non a caso lo stesso Spinetta pone la condizione di avere il via libera dal nuovo governo»
Il via libera del nuovo governo. Ma il 20 marzo nessuno sapeva quale sarebbe stato l'esito delle elezioni. I sondaggi sino ad allora pubblicati mostravano il PD in recupero rispetto al PDL e l'UDC di Casini (che era per la vendita a Air France) in ascesa. La media dei sondaggi indicava che il PDL non avrebbe preso la maggioranza anche al senato. Poi il 14 aprile a sorpresa arrivò anche la maggioranza al senato grazie alla vittoria anche in regioni come Lazio, Campania e Liguria, fino all'ultimo date appannaggio dell'avversario.


Va da sé che se il centrodestra non avesse avuto i numeri per governare da solo, Berlusconi avrebbe dovuto convincere l'alleato di governo ad appoggiare il suo piano alternativo. Cosa non scontata.

Torniamo alla ricostruzione di Renzi. I punti 3, 4 e 5 sono una balla colossale. Perché fra febbraio e marzo, nonostante Berlusconi avesse manifestato la propria contrarietà, Prodi e Padoa-Schioppa, assieme all'amministratore delegato di Alitalia Prato continuarono a trattare con l'amministratore delegato del gruppo Air France-KLM Spinetta.

Ora delle due l'una: o trattavano perché speravano di concludere l'accordo, e se lo speravano vuol dire che intendevano concluderlo nonostante l'opposizione di Berlusconi; oppure stavano solo perdendo tempo sapendo di perderlo.

Qualcuno di voi sarà tentato di dire che sia Prodi che Spinetta che i sindacati sapevano di fare qualcosa di inutile, dato che poi Berlusconi, una volta al governo, avrebbe mandato tutto all'aria. Sbagliato: l'11 febbraio il PDL dichiarò alla stampa estera che se il governo Prodi avesse concluso con Air France il futuro governo Berlusconi avrebbe onorato l'accordo, pur non condividendolo.

Il resto è storia nota: a fine marzo 2008 i sindacati non accettarono la proposta di Air France chiedendo invece di continuare a trattare, l'amministratore delegato di Alitalia si dimise e air France ritirò l'offerta. Al subentrante governo Berlusconi non restò che cercare di mettere assieme in breve tempo l'unica privatizzazione possibile che era rimasta: quella alla cordata italiana.

giovedì 10 ottobre 2013

Abolire la Bossi-Fini?

Leggete queste norme:
Art. 4
Ingresso nel territorio dello Stato

1. L'ingresso nel territorio dello Stato e' consentito allo straniero in possesso di passaporto valido o documento equipollente e del visto d'ingresso, salvi i casi di esenzione, e puo' avvenire, salvi i casi di forza maggiore, soltanto attraverso i valichi di frontiera appositamente istituiti.

2. Il visto di ingresso e' rilasciato dalle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane nello Stato di origine o di stabile residenza dello straniero. (...)

3. (..) l'Italia, in armonia con gli obblighi assunti con l'adesione a specifici accordi internazionali, consentira' l'ingresso nel proprio territorio allo straniero che dimostri di essere in possesso di idonea documentazione atta a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonche' la disponibilita' di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno e, fatta eccezione per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno nel Paese di provenienza. (...)
 
Art. 8
Respingimento

1. La polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti dalla presente legge per l'ingresso nel territorio dello Stato. (...)

Art. 12
Esecuzione dell'espulsione

1. Quando non e' possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento, perche' occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identita' o nazionalita', ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilita' di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza piu' vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del ministro dell'Interno, di concerto con i ministri per la Solidarieta' sociale e del Tesoro.

È la famigerata legge Bossi-Fini? No, è la Legge 6 marzo 1998, n. 40, detta Turco-Napolitano.

È scattata la moda collettiva del volere abolire la legge Bossi-Fini. L'idea (sbagliata) è che ciò impedirebbe il ripetersi di tragedie come quella di Lampedusa.

Nulla di tutto ciò: quelle tragedie accadono, perché quella gente cerca di venire in Italia senza visto, anche turistico, che i nostri consolati comunque non concederebbero. Quindi se si vuole impedire che gli immigranti clandestini facciano il viaggio in barconi non sicuri occorre che possano fare il viaggio con dei normali mezzi di trasporto (navi o aerei di linea). Ma per farlo occorre o abolire l'obbligo del visto oppure rilasciare visti senza limiti. Cioè abolire la Turco-Napolitano.

Quindi per prevenire i naufragi dei barconi occorre semmai abolire la regolamentazione dell'immigrazione e non il reato di ingresso clandestino.

Occorre uscire da Schengen, e occorre prepararsi a un aumento dell'immigrazione dal terzo mondo. Occorre prepararsi a un aumento della piccola criminalità, a un aumento del numero di mendicanti e venditori abusivi di cianfrusaglie e lavavetri agli incroci. Occorre altresì accettare il dumping salariale che i nuovi poveri imporranno ai meno abbienti che già sono nel paese allorché faranno loro concorrenza nel mercato del lavoro.

È facile prevedere che, dopo che si verificheranno queste conseguenze, la tristezza di fronte alle immagini dei morti di Lampedusa scomparirà, e i coglioni torneranno a chiedere la regolamentazione dell'immigrazione. Ovviamente, allora come ora, senza sapere di cosa parlano.

lunedì 30 settembre 2013

Ma di che stiamo parlando?

Facciamo un passo indietro. Estate 2011: sale lo spread, si teme che l'Italia debba svenarsi per pagare i tassi d'interessi sui titoli del debito pubblico. Si vuole che il paese riacquisti credibilità agli occhi dei creditori fugando in loro ogni dubbio si du un possibile default, affinché i tassi tornino ai livelli bassi di prima della crisi.

A tal fine viene chiesto che il pareggio di bilancio venga raggiunto nel 2013, cioè anticipando di un anno quanto previsto dalle manovre del governo Berlusconi. Il risanamento delle finanze pubbliche diventa l'imperativo nazionale. E pure urgente: il Sole24Ore titola "FATE PRESTO". Il paese, secondo questa narrativa, sarebbe "sull'orlo del baratro".



Arriva il governo Monti e i desideri vengono esauriti: una manovra fatta principalmente di nuove tasse viene chiamata "decreto salva italia". Una delle sue finalità è appunto quella di mettere i conti pubblici "in sicurezza" e di assicurare che il bilancio statale sia in pareggio nel 2013.

"Effetto Monti" - Oggi, nel 2013, il governo Letta va in crisi perché, non trovando le risorse a copertura, annullare il previsto (da Monti) aumento dell'IVA al 22% comporterebbe lo sforamento per l'anno in corso del limite del deficit annuale al 3%, e la conseguente procedura europea d'infrazione.

Ovvero: il governo Monti ci doveva lasciare in eredità i conti risanati e il pareggio in bilancio nel 2013; invece ci ritroviamo esattamente dove eravamo, con un deficit fra il 3% e il 3.1%. Nel frattempo i fondamentali del paese sono peggiorati: è diminuito il PIL, è aumentato il debito pubblico in percentuale ad esso. Ovvero, la capacità del paese di restituire il debito è diminuita rispetto al 2011.

A logica ciò dovrebbe far risalire lo spread, se non fosse che l'effetto spread è stato sterilizzato nel 2012 dalla BCE dalle due OMT prima e dalle dichiarazioni di Draghi sulla volontà di salvare l'Euro "whatever it takes". In Italia invece ci si chiede se la caduta del governo Letta faccia risalire lo spread, se la crisi voluta da Berlusconi danneggi la stabilità del paese, e se occorra comunque tenere un governo in carica ed evitare delle elezioni che ci dovrebbero condurre al baratro.

venerdì 27 settembre 2013

Su Alitalia - 2

In seguito ai commenti torno sull'argomento per chiarire.

Alitalia era un'impresa di proprietà statale che sino ad allora era stata malgestita, e che era da molti anni in perdita. Nel 2006 le perdite (e il divieto comunitario di ripianarle) avevano fatto sì che fosse necessario scegliere fra queste tre possibilità:
  1. che lo stato la lasciasse fallire
  2. che lo stato risananasse la società (senza ricorrere ad aiuti di stato, però)
  3. che lo stato la vendesse a un privato, e questi se ne facesse carico con piena libertà di azione
Si potrebbe argomentare che forse la via del fallimento sarebbe stata la meno peggiore, ma, senza a stare a dilungarsi su di essa, diciamo che era politicamente improponibile. Dunque la scartiamo e passiamo oltre.

In teoria si sarebbe potuto percorrere la via n.2, ma i fatti e l'esperienza lasciavano credere che sarebbe stato con ogni probabilità un insuccesso. Perché infatti, al di là dei buoni propositi dei politici, una gestione statale sarebbe dovuta riuscire laddove aveva fallito nei decenni precedenti?

Rimaneva la via della privatizzazione, che come detto implicava la conseguente possibilità del nuovo proprietario di fare scelte dolorose, le stesse che in teoria avrebbe dovuto fare, e non aveva mai fatto, la gestione statale. Attenzione però: anche per un privato non sarebbe stato facile compiere dette scelte, dato che gli interessati avrebbero reagito in ogni modo possibile, con pressioni, scioperi, manifestazioni, ricorsi e quant'altro il "sistema italia" metteva loro a disposizione.

In altre parole non è che una privatizzazione equivalga a dire "ragazzi, prima eravate statali, ora siete i miei dipendenti e si fa come dico io". Quello magari lo avete visto nei documentari sulla Thatcher, non certo in Italia.

La conseguenza era che l'opzione 3 era da intendersi:
che lo stato la vendesse a un privato, e questi se ne facesse carico con piena libertà di azione, e che lo stato agevolasse il privato nella fase di transizione
Quanto aggiunto in neretto, in una forma o in un'altra, avrebbe significato costi per lo stato. Quando si parla della privatizzazione di Alitalia bisogna prima chiarirsi le idee su quello.

Nel post precedente ho fatto notare che limitarsi a criticare i costi che la privatizzazione ha avuto per le casse statali e per l'economia del paese in generale non ha molto senso se non si quantificano tutti i costi, immediatamente visibili o meno. Cosa che chi critica, che sia un Rizzo che scrive i suoi articoli anticasta o che sia il tipico commentatore da sito web un-po'-grillino-di-sinistra, di solito non fa.

Allora, ho iniziato il post scrivendo che nel 2006 le perdite avevano raggiunto un punto critico. Ovviamente la storia di Alitalia non inizia nel 2006. Durante il quinquennio precedente il governo Berlusconi non fece niente per risolvere il problema. E prima ancora durante i governi di centrosinistra fu prima lanciata a poi fatta fallire la fusione con KLM, che, quella sì, avrebbe potuto essere una soluzione per Alitalia. Senza contare poi l'asta lunare fatta dal governo Prodi nel 2007 che andò deserta. Questo per dire che nel 2008 la compagnia era alla canna del gas e che fare una scelta in quella situazione di emergenza non era la cosa più facile di questo mondo: la trattativa con Air France (che, diciamolo, non a caso attese che Alitalia fosse sull'orlo del baratro per fare la sua offerta) durò circa tre mesi, mentre il progetto CAI fu improvvisato in poche settimane. In quelle circostanze fu già un risultato che la privatizzazione sia avvenuta. Infatti chi ha un po' di memoria leggeva un giorno sì e l'altro pure articoli e commenti che dubitavano dell'esistenza della cordata, che dicevano che si trattasse di una balla, che nessun acquirente italiano c'era. Invece le cose sono andate in maniera diversa. Così come finora si è rivelata sbagliata la previsione che i proprietari di Alitalia se ne sarebbero sbarazzati vendendo a AF non appena fosse scaduto il vincolo.

Quindi, per riassumere:

  • l'offerta AF non era il bengodi, ma fu fatta in extremis alle condizioni di un soggetto forte verso uno che è invece alla canna del gas: in altre parole un'offerta da strozzino
  • la maggiore colpa di ciò fu di chi lasciò che si arrivasse alla canna del gas, di chi si mise in condizioni di non avere più tempo per valutare altre possibili offerte: il governo Prodi
  • una minore colpa fu anche del precedente governo Berlusconi che non prevenì quello stato di cose
  • un'altra colpa fu del governo di centrosinistra che non fece la fusione con KLM: andate a guardarvi le condizioni e paragonatele con l'offerta di Air France e poi sì che vi indignerete

Infine una considerazione: Berlusconi viene ritenuto il responsabile del fallimento della trattativa con Air France. Che però formalmente si interruppe in seguito alla mancata approvazione della proposta da parte dei sindacati. Chi c'era fra quei sindacalisti? Epifani. Eppure in tutti questi anni non ho letto un articolo in cui venisse contestato all'attuale segretario del PD di aver contribuito a provocare il "danno" o di aver creduto alle promesse del caimano...

martedì 24 settembre 2013

Su Alitalia

Tornano le polemiche su Alitalia, che potrebbe vendere a Air France la maggioranza del capitale azionario.


Per giudicare quella vicenda occorre prima dire la verità su cosa fosse l'offerta di Air France (il testo viene da una pagina di Wikipedia che è stata in seguito rimossa):

The terms of the Air France-KLM Group of the March 28 draft agreement were (with a deadline of 31 March 2008):
  1. that the possible consequences of a lawsuit by the Milan Malpensa Airport owners, Sea, will be dealt with by the Italian government.
  2. that the current and next government support this proposal.
  3. that the unions agree to the dismissal of 1.620 employees of Alitalia Fly: 567 pilots, 594 flight assistants, 121 foreign employees and 398 ground employees.
  4. that Air France-KLM will employ only 3.200 of the 7.600 employees of Alitalia's maintenance subsidiary, Alitalia Servizi, if they can dismiss 500 of these employees.
  5. that Alitalia's bulk flight network will be based at Rome Leonardo da Vinci Fiumicino Airport and the international flights from Milan Malpensa Airport will be stopped.
  6. that the Italian government agrees to a capital injection of 300 million Euros in Alitalia to prevent the company of going broke; to be repaid from the raised capital after the takeover has been finalized.
  7. that the Italian government invests in the Rome Leonardo da Vinci Fiumicino Airport. that the Italian government guarantees the landing rights of Alitalia.
  8. that the relevant competition authorities authorize the proposal.
The fate of the rest (of a total of about 7600) of the employees of Alitalia's maintenance subsidiary, Alitalia Servizi, was uncertain.
The Board of Directors of Alitalia and the Italian government agreed to these terms; the unions did not. Raffaele Bonanni, the leader of one of Alitalia's main unions, CISL, denounced the agreement: "The government is delivering us naked to negotiate with Air France to the detriment of the workers, infrastructure, and the general interests of the country,". The union of the pilots, ANPAC, which has agreed to the takeover in principle, called the French-Dutch offer "unacceptable". ANPAC especially disagrees with the plan to end the freight service of Alitalia by 2010. The talks with the unions over the takeover by Air France-KLM collapsed when the French-Dutch carrier refused to accept
union demands hours before a deadline to win their support was to expire. As a consequence Alitalia's chairman, Maurizio Prato, resigned on April 2nd 2008.

Andiamo per ordine
  1. La SEA, la società che gestisce Malpensa, aveva fatto causa ad Alitalia, in quanto questa aveva tagliato dei voli bloccando allo stesso tempo gli slot (ovvero Maplensa si era ritrovata con dei "buchi" senza poterli riassegnare ad altre compagnie aeree. Air France pretendeva che lo stato italiano si facesse carico di questa causa (leggi: del risarcimento danni).
  2. Berlusconi dichiarò poi che il suo futuro governo avrebbe onorato l'accordo con Air France-KLM, qualora fosse stato concluso.
  3. L'offerta di Air France-KLM prevedeva il licenziamento di 7579 dipendenti in Italia (fra Alitalia e AZ Servizi) e di 121 all'estero.
  4. Prevedeva anche che il governo Prodi facesse un prestito ponte di 300 milioni di Euro
  5. Prevedeva che il governo italiano facesse degli investimenti nell'aeroporto di Fiumicino e che garantisse ad Alitalia tutti gli slot.
Chi critica la mancata accettazione dell'offerta di Air France-KLM tende a dimenticare i punti che ho elencato ai numeri 1, 3, 4 e 5. Quanto sarebbe costata all'erario in termini di risarcimento a SEA, ammortizzatori sociali, di prestito poi dichiarato illecito dall'UE di lavori a fondo perduto sullo scalo di Fiumicino l'offerta di Air France? Questo Sergio Rizzo non lo dice.

Ma soprattutto non dice che il fallimento dell'offerta di Air France fu dovuto al mancato accordo con i sindacati. Come appunto disse Bonanni:

"The government is delivering us naked to negotiate with Air France to the detriment of the workers, infrastructure, and the general interests of the country"
Ora addossare a Berlusconi le ragioni di una scelta presa in tutta autonomia dai sindacati (che non sono certo berlusconiani) appare quanto mai bizzarro.

Chi critica negli anni scorsi poi tendeva ad affermare con continuità che Air France si sarebbe comprata per pochi soldi quello per cui aveva offerto di più nel 2008. E veniva detto che ciò sarebbe avvenuto allo scadere dei tre anni dal 2008, quando i soci della nuova Alitalia sarebbero stati liberi di vendere. La storia li ha smentiti: finora non è avvenuto. Anzi è successo che in questi ultimi anni il gruppo Air France-KLM ha licenziato dei dipendenti. Fra essi non quelli di Alitalia.

Sergio Rizzo del Corriere della Sera, nella sua tirata antiberlusconiana, arriva fino al punto di scrivere che:

a sentire i giornali parigini, dovremmo perfino ringraziare la compagnia franco-olandese di prendersi questa rogna

Eh già, Air France comprerebbe Alitalia non già per farci degli utili, ma addirittura per spirito caritatevole.

Forse la verità è che Alitalia è in crisi, perché l'Italia e l'Europa sono in crisi. E forse verrà acquistata da uno straniero come vengono acquistate altre aziende italiane in questo periodo.

Lo stato italiano ci ha provato a privatizzarla. Sarebbe stato comunque un bagno di sangue per le finanze pubbliche. Ha scelto i migliori imprenditori che c'erano sulla piazza italiana. Se era meglio darla a una forte azienda straniera del settore, perché il governo Prodi cincischiò nel 2006-2007 con un'asta che conteneva delle condizioni capestro (in sostanza si chiedeva all'acquirente di continuare a gestirla in perdita come aveva fatto sino a quel momento lo stato italiano)? E perché negli anni novanta fu fatta fallire la fusione con KLM?

mercoledì 11 settembre 2013

Il ricalcolo

Non c'è segreto meglio custodito di una cosa alla luce del sole. Probabilmente la cosa più ridicola della sentenza sui diritti tv di Berlusconi è quella di cui non parla nessuno: la faccenda della pena accessoria. Chi legga la stampa italiana dal primo agosto in poi sa che la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di Berlusconi, ma che ha rinviato gli atti alla Corte d'Appello, affinché questa faccia un nuovo processo ed emetta la relativa sentenza limitatamente alla pena accessoria.


I giornali (qui, per esempio) sintetizzano la cosa con l'espressione ricalcolo della pena accessoria. Solo che la parola "ricalcolo" è fuorviante. Anzi nella sostanza è un modo per disinformare il lettore, almeno quello che non conosca la legge penale.

Perché non è un problema di calcolo, non è un mero errore tecnico, non è una svista aritmetica marginale rispetto al merito della colpevolezza dell'imputato. No, è qualcosa d'inquietante.

Berlusconi è stato condannato per frode fiscale, un reato previsto dall'art.3 del Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74 - Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

La stessa legge all'art. 12 stabilisce le pene accessorie per detto reato. In particolare al comma 2 stabilisce quella dell'interdizione dai pubblici uffici:
La condanna (...) importa altresi' l'interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni (...)
La legge è breve e chiara: prevede e tipizza dei reati fiscali, ne stabilisce le pene, e qualche articolo più sotto quantifica le relative pene accessorie.

Non è un problema di calcolo e bilanciamento di circostanze aggravanti e attenuanti: l'interdizione non può essere "superiore a tre anni". Eppure in primo e secondo grado gliene hanno dati cinque!

Sapete perché?

Perché invece di applicare quell'art. 12 hanno applicato la previsione generica del codice penale in materia di pene accessorie (art. 29), che dice:
la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni importa l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.
Solo che anche gli studenti di legge sanno che la norma speciale deroga a quella generale. Che è ciò che ha fatto notare la Cassazione.

Per semplificare il concetto agli estremi è come se i giudici avessero sì condannato Berlusconi per frode fiscale, ma "calcolando" (sic.!) la pena principale secondo l'art. 640 del codice penale, quello che punisce la frode in generale.

A questo punto è legittimo chiedersi come sia possibile che due diversi collegi formati da tre magistrati, di una certa esperienza, rispettivamente del tribunale e della corte d'appello più importante d'Italia, in un processo seguito dalla stampa di mezzo mondo, possano commettere un simile errore. Errore che determina ulteriori lungaggini, nonché spese processuali per lo stato e per gli imputati.

È legittimo chiedersi se quei magistrati abbiano dimestichezza con la legge tributaria, con la sua interpretazione e con il modo in cui è praticata (leggi: rispettata, elusa o frodata) nella vita di tutti i giorni.

giovedì 2 maggio 2013

Un governo al servizio dell'Italia e dell'Europa

Il titolo è quello del recente discorso di Enrico Letta sulla fiducia al governo. I media pare non ci abbiano fatto caso, ma è scandaloso. Che un governo sia al servizio dell'Italia, e dunque dei suoi cittadini, è cosa normale e giusta; ma quando mai un governo si dichiara al servizio di un insieme di stati o di un'organizzazione, internazionale o sovranazionale che sia?


Questo governo è stato eletto (in senso lato) dal popolo italiano, e non da un fantomatico popolo europeo. E né tantomeno dalla Commissione Europea o dal popolo francese o da quello tedesco, per citare la tre capitali che Letta ha immediatamente visitato.

E che abbia scelto proprio quelle tre capitali è indicativo del fatto che l'Europa è un'associazione dove qualcuno comanda più degli altri. Passi per Bruxelles, che potrebbe essere considerata la capitale di una futura ipotetica unione europea federale; ma andare a Parigi e Berlino a chiedere il permesso di cambiare politica rispetto al governo Monti è un chiaro segno di sudditanza. È un segno che in Europa non siamo tutti uguali.

Teoricamente avrebbe potuto visitare invece Londra, Madrid, Varsavia, Stoccolma o Praga: anche quelle sono capitali di stati appartenenti all'Unione Europea. E formalmente il voto di ogni stato, dal piccolo Lussemburgo alla grande Germania, conta uno. Invece oggi sappiamo ufficialmente che non è così. E anzi Letta lo teorizza pure.

E ciò nonostante che la nostra costituzione, all'art. 11, stabilisca formalmente che

L’Italia (...) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni

Ecco, non mi risulta che un governo francese o tedesco (per non dire britannico) abbia mai iniziato il suo mandato dichiarando di essere al servizio dell'Europa. Se lo facesse verrebbe immediatamente stigmatizzato. Da noi invece la cosa passa sotto silenzio.

Il governo Letta è probabilmente il governo più europeista che abbiamo mai avuto. Ha Emma Bonino, che da Radicale ha sempre promosso l'idea degli Stati Uniti d'Europa, agli Affari Esteri, ha Enzo Moavero (già docente di diritto CEE, giudice della Corte di Giustizia e funzionario della Commissione UE) alle Politiche Comunitarie. Lo stesso Enrico Letta si è formato e specializzato in diritto comunitario. La sua bibliografia (che mi pregio di non aver letto), con titoli quali quali Euro sì. Morire per Maastricht o La comunità competitiva. L'Italia, le libertà economiche e il modello sociale europeo o ancora Dialogo intorno all'Europa, dai titoli pare un'agiografia dell'Unione Europea e della moneta unica.

Letta ha detto che il rimedio alla crisi (dell'Italia e dell'Europa) è

una maggiore integrazione verso un'Europa Federale. Altrimenti il costo della non-Europa, il peso della mancata integrazione, il rischio di un'unione monetaria senza unione politica e unione bancaria diventeranno insostenibili: come la crisi di questi cinque anni ci ha mostrato.

Chissà se nei suoi scritti precedenti, compreso il mitico Euro sì. Morire per Maastricht questa crisi l'aveva mai paventata... Istruttiva questa recensione.

Il libro di Letta uscì assieme a un libro opposto di Lucio Caracciolo (Euro no. Non morire per Maastricht). Letta sosteneva

l'unione monetaria come il primo approdo di un coerente percorso verso l'unità, durato un quarantennio. L'originalità del percorso - prima l'economia, poi la politica - non comporta rischi secondo l'autore. Riflette piuttosto un'acquisita "simbiosi" di politica ed economia, di cui i parametri di Maastricht sono un'espressione sostanzialmente corretta e che ha già dato buona prova di sé nel risanamento economico degli ultimi anni. Il processo non va interrotto, ma semmai completato, anche attraverso un maggiore e più consapevole contributo italiano.

Caracciolo invece:

Il passato e il presente di Maastricht, lungi dal consolidare l'auspicabile unità europea, fomentano a suo giudizio un processo disgregatore, che ha il suo centro nell'Europa a due velocità", investe il rapporto con i paesi dell'est europeo e rischia di compromettere la solidarietà transatlantica. Il quadro a tinte fosche delineato da Caracciolo è completato da un più generale scetticismo sulla possibilità che l'euro possa essere il viatico di un'unione politica duratura.

A voi di giudicare chi dei due è stato più lungimirante.

Digressioni a parte, torniamo al discorso sulla fiducia di Letta. Che ha detto:

le sorti dell'Italia sono intimamente correlate a quelle dell'Unione europea. Due destini che si uniscono.

Bella frase. Ma che in sé non vuol dire un bel nulla. Poi aggiunge:

Pensare l'Italia senza l'Europa è la vera limitazione della nostra sovranità, perché porta alla svalutazione più pericolosa, quella di noi stessi.

Si noti la parola "svalutazione", messa lì, suppongo non casualmente.

Vivere in questo secolo vuol dire non separare le domande italiane e le risposte europee, nella lotta alla disoccupazione e alla disuguaglianza, nella difesa e nella promozione di tutti i diritti. E soprattutto, l'abbattimento dei muri tra il Nord e il Sud del continente, così come tra il Nord e il Sud dell'Italia.

Altra bella frase. Che però nel concreto fa acqua. In che modo l'Europa darebbe o ha mai dato una risposta alla lotta alla disoccupazione? Spiace dirlo, ma l'unico contributo europeo è stato la libertà di emigrare senza bisogno di permessi. Il che è un'ottima cosa, ma io non credo che l'obiettivo dell'Italia consista nel diventare la Calabria dell'Europa.
Abbiamo il diritto a sogno che si chiama Unione Politica e abbiamo il dovere di renderlo più chiaro. Possiamo avere "più Europa" soltanto con "più democrazia": con partiti europei, con l'elezione diretta del Presidente della Commissione, con un bilancio coraggioso e concreto come devono essere i sogni che vogliono diventare realtà.

Il problema è che se passiamo dai sogni alla realtà le cose si fanno più complicate:
  1. Partiti europei - nulla impedisce già oggi di farli. I partiti politici sono libere associazioni di privati cittadini. Il regolamento del parlamento europeo poi incentiva l'europeizzazione dei partiti subordinando la compsizione dei gruppi alla loro multinazionalità. La realtà è invece che i partiti europei sono solo dei comitati di propaganda ad uso e consumo di ciascun partito nazionale e che le elezioni europee sono 27 elezioni nazionali, slegate fra di loro, che si svolgono in contemporanea.
  2. Elezione diretta del Presidente della Commissione - in effetti vorrei proprio vedere Barroso o chiunque dei suoi predecessori o futuri successori fare una campagna elettorale in una ventina di lingue. Oppure secondo Letta chi non sa l'Inglese, il Francese o il Tedesco si attacca?
  3. Un bilancio Europeo "coraggioso" - purtroppo quello che per Letta (e magari per gli Italiani, gli Spagnoli, i Greci, etc.) è un sogno, per i Tedeschi sarebbe un incubo. Secondo uno studio l'attuale situazione dà alla Germania un vantaggio di circa il 3% del suo PIL. Ma l'economista Jacques Sapir stima che per riequilibrare la situazione la Germania dovrebbe ogni anno versare una somma fra l'8 e il 10% del suo PIL ai paesi meno competitivi. Il che per loro renderebbe preferibile piuttosto rinunciare a quel 3% e tornare al Marco.
    I fatti poi ci mostrano che per stabilire un bilancio europeo di circa 139 miliardi di Euro all'anno (poco più dell'1% del reddito nazionale lordo dell'area UE) vi è stata una negoziazione di mesi e mesi. Qualora fosse più coraggioso ognuno può immaginare le maggiori difficoltà di governare l'Europa di comune accordo...
Più in generale si sa che per sposarsi occorre essere in due a volerlo. La mia impressione è che l'eventuale proposta che il governo Letta farà (ma la farà?) in sede europea scalderà di più i cuori dei paesi debitori che quelli dei paesi creditori. Dopo di che quando dai discorsi si passerà alla realtà sarà interessante ascoltare quello che i federalisti Letta, Bonino e Moavero ci diranno.

Così come i risultati dei magistrati in politica (vedasi i casi Di Pietro, De Magistris e Ingroia) hanno screditato l'idea dell'uomo di legge che va a fare il giustiziere della casta, così come i pessimi risultati dei governi tecnici hanno screditato, spero a lungo, l'idea che sia opportuno affidare loro il governo del paese, temo che il fallimento del nostro primo governo federalista screditerà il miraggio del "più Europa" con cui i nostri politici (nonché i loro elettori, va detto) raccontano favole alla gente evitando di assumersi le loro responsabilità.

venerdì 5 aprile 2013

Andiamo a Deauville

Qualcuno ricorderà il famoso articolo di Tito Boeri, quello della "Papi's Tax", quello in poche parole in cui sosteneva che la colpa del rialzo dello spread erano, fra le altre cose, gli scandali sessuali di Silvio Berlusconi.


In quell'articolo Boeri scriveva che esistevano studi

tra l’economia e la psicologia, basati su tecniche di priming, che documentano come gli individui messi a conoscenza di particolari poco edificanti sulla vita privata dei leader politici rinuncino a comprare i titoli di stato di quei paesi.

E ciò, secondo Boeri,

spiegherebbe il nuovo allargamento dello spread dopo la pubblicazioni delle nuove intercettazioni sulla vita privata del nostro premier.

Scrissi già allora come Boeri non avesse mai specificato quali fossero questi studi e né se essi fossero attendibili.

Paolo Manasse (professore di economia all'università di Bologna) e altri hanno recentemente scritto un articolo il cui fine ultimo è di dimostrare che la colpa dello spread era proprio di Berlusconi, e che senza la caduta di Berlusconi non sarebbe stato possibile per Draghi attuare politiche monetarie tese a far calare lo spread.

Ma facciamo un passo indietro per capire meglio. Abbiamo nel 2011 il rialzo dello spread col governo Berlusconi. Arriva Monti, e alla fine lo spread si abbassa. Ma non subito, come a lungo ha fatto notare Renato Brunetta sul suo blog. Dunque c'è chi sostiene che la discesa dello spread sia stata di Monti e chi invece dice che esso sarebbe sceso comunque, dato che ciò è stato causa della politica monetaria e delle dichiarazioni di Draghi.

Il 13 Febbraio 2013, Paolo Manasse scrisse sul suo blog un post in cui criticava Loretta Napoleoni, e per estensione anche Claudio Borghi (un economista di destra), Alberto Bagnai (un economista di sinistra), entrambi accomunati dalla contrarietà all'Euro, in quanto poco competenti in materia (mentre a suo dire Michele Boldrin che dibatteva in tv con la Napoleoni ha maggiori titoli). Purtroppo sul blog sono scomparsi i commenti. Purtroppo perché quel post sollevò un vespaio. Borghi rispose a Manasse (anche su Twitter), e la polemica scivolò anche sulla storia dello spread.

Borghi infatti ricordò a Manasse di quando entrambi parteciparono a un dibattito in TV, e Manasse sostenne che il calo dello spread fosse merito di Monti e della sua credibilità, mentre Borghi sostenne che la BCE avrebbe dovuto in ogni caso far calare lo spread, anche con Berlusconi ancora al governo, pena l'esplosione dell'Euro. E che pertanto lo spread calò unicamente per merito di Draghi. Qui la domanda chiave del dibattito (che può poi essere ascoltato tutto).

Al che io chiesi via Twitter al Prof. Manasse:


Ed ecco che finalmente il 19 Marzo arriva l'articolo di Manasse:



Questa è in breve la sua tesi:

In questo articolo sosteniamo che la dinamica dei tassi di interesse e degli spread sui CDS in Italia da metà  2011 ha le caratteristiche di una bolla speculativa originata da crisi di sfiducia, e che Monti ha effettivamente “bucato la bolla”, restituendo  fiducia agli investitori internazionali.

Cito quest'articolo, perché ho avuto modo di commentarlo e di criticarlo (ma i commenti non sono più visibili sul suo blog, benché un vecchio link li apra). E perché nello scambio di commenti il Prof. Manasse mi ha rivelato una chicca: che gli studi a cui alludeva Boeri potrebbero essere proprio un suo articolo del 2009.


Vale la pena di leggerlo. Manasse costruisce una curva basata sulla quantità di occorrenze nel tempo delle ricerche su Google (!) di termini quali "Berlusconi", "Noemi", "Tarantini", "D'Addario", etc. messe su di un asse e l'andamento del tasso d'interesse sui BTP messo sull'altro asse.

Manasse avverte che

The results of this exercise should be considered with great caution

e che detto metodo è

an academic exercise
Cose che tradotte dal linguaggio aulico a un italiano terra-terra significano che sono esercizi senza alcuna validità scientifica (per essere gentili). Ma, gentilezze a parte, potrebbero essere tradotte usando termini più coloriti e diretti.

Ma torniamo all'articolo di Manasse, quello sulla "bolla dello spread causata da Berlusconi". Ci sono delle magagne.
  1. La crisi del governo Berlusconi non inizia nella primavera-estate del 2011 - La crisi inizia un anno prima
  2. Gli scandali personali di Berlusconi non iniziano nella primavera-estate del 2011 - Ed è lo stesso Manasse che ne scriveva nel 2009 parlando di Private Leisure and Public Costs of the “Sultan of Swing”!
  3. Manasse e Boeri paragonano le spread italo-tedesco a quello ispano-tedesco - Laddove lo spread dello spread darebbe la misura dell'effetto Berlusconi. Ma anche qui i due professori omettono un piccolo particolare: che pur se a fronte di due governi indeboliti e presumibilmente a fine corsa (Zapatero e Berlusconi) la Spagna nel 2011 aveva agli occhi di tutti (e dunque anche degli investitori) un evidente vantaggio: la certezza che a Zapatero sarebbe succeduto un governo Rajoy con maggioranza stabile e ancora più incline all'austerità dei socialisti. Mentre invece per quanto riguarda l'Italia si sapeva che Berlusconi era in crisi, ma si temeva che a lui sarebbe seguita una stagione d'instabilità oppure di egemonia di un centro-sinistra poco incline al rigore dei conti.
  4. Credibilità personale o credibilità politica? - Entrambi mischiano i concetti di "credibilità personale" (immagine appannata dagli scandali sessuali) e "credibilità politica" (fiducia nella solvibilità dello Stato in quanto chi lo governa ha la forza politica di fare in modo di evitare il default). Ora delle due l'una: o era un problema di swing o era un problema di debolezza politica.

Già. Ma Manasse, sollecitato sul punto dice:

Nell'articolo non si vuole dare una spiegazione del perchè si ha una crisi di fiducia nel nostro debito: su questo possiamo avanzare solo delle ipotesi.

Già, delle ipotesi. Che però a leggere gli articoli di Boeri e Manasse venivano presentate come delle certezze o quasi. Quindi smettiamo di raccontare balle: o sono ipotesi, e allora si dica che si sta elucubrando, o sono delle certezze scientifiche, presentate in quanto tali da dei rispettati accademici.

Tip per il Prof. Manasse - Invece di cercare su Google "Berlusconi", "Noemi" e "Tarantini", provi invece a cercare "Merkel + Sarkozy + Deauville + private-sector involvement". E magari scoprirà che nell'autunno del 2010, Merkel e Sarkozy fecero una dichiarazione congiunta in cui evocarono un cambio di politica nei bailout dei paesi in difficoltà. Per la quale in futuro intendevano lasciare che fossero gli investitori privati in titoli di stato dei paesi in difficoltà a restare col cerino in mano.

Non ci crede? Magari crederà al Prof. Anders Aslund, che è certamente caballero con titoli e contro titoli. Che ha recentemente scritto (il neretto è mio):
The earlier Deauville statement in October 2010 by French President Nicolas Sarkozy and German Chancellor Angela Merkel that opened the door to default but put the whole burden on private bondholders—the so-called PSI, or private sector involvement—can be seen now in retrospect as a mistake not to be repeated.
Capito? A Ottobre 2010 i due leader europei che contano evocarono esplicitamente per la prima volta un cambio di politica in base alla quale l'Europa avrebbe lasciato che i paesi in difficoltà facessero default. Ed è quello che piano piano i mercati cominciarono a temere nei confronti della Grecia. Il cui spread s'impennò. E poi nei confronti dei paesi più indebitati, fra i quali, subito dopo, veniva l'Italia.

Conclusioni - Ognuno giudicherà come crede, ma appunto ognuno di voi è potenzialmente un acquirente di titoli di stato italiano: cosa vi renderebbe più riluttanti a investire in BTP, gli scandali sessuali del presidente del consiglio in carica o la volontà dichiarata dell'Europa di smettere di garantirli?

Messa così la domanda è retorica. Ma è così che ragiona ogni investitore che si sforzi di essere razionale. Due rispettati cattedratici sono invece partiti per la tangente. E le loro idee, campate sul nulla, ma divenute la verità ufficiale, hanno influenzato il dibattito politico del Coglionistan. Che si merita la classe intellettuale che ha.

venerdì 15 marzo 2013

Un giorno in pretura

Racconta il Corriere della Sera che al processo Ruby la teste Silvia
Trevaini ha raccontato anche di aver visto ballare Nicole Minetti «tipo Bagaglino, con costumi di scena, corpetti e gonnellini». E il giudice Gatto: «Ma lei cosa ha pensato nel vedere un consigliere regionale che ballava così?». La ragazza: «Penso quello che hanno pensato quelli che l'hanno vista sfilare qualche mese fa e poi ognuno è libero di fare ciò che vuole».
Già: «Ma lei cosa ha pensato nel vedere un consigliere regionale che ballava così?». Domanda necessaria e rilevante al fine dell'accertamento dei fatti, eh? Di certo è una domanda che merita la successiva risposta.

lunedì 11 marzo 2013

AAA portaborse cercasi

Domanda: con quali soldi il Movimento Cinque Stelle pagherà gli Assistenti legislativi (nonché le altre figure professionali) che vuole assumere per coadiuvare i suoi neoeletti parlamentari?

Sono - ricordiamolo - figure che, se degli altri partiti, verrebbero dispregiativamente chiamati portaborse. Normalmente vengono pagati con una parte dell'indennità che spetta al parlamentare.



Sia chiaro, il parlamentare non è obbligato ad assumerli: se ha un minimo di cultura e/o competenza (leggi: istruzione superiore) le proposte di legge, atti normativi ad hoc, proposte di emendamenti se li fa da solo. Idem i rapporti sul lavoro delle commissioni.

Se non li assume, riduce il costo della casta, giusto? Io da un partito anti-casta mi aspetto un maggiore rispetto della cosa pubblica; non una pioggia di assunzioni come un socialista qualsiasi.

Temo però che se il M5S ne facesse a meno, vista la scarsa preparazione tecnica dei suoi eletti, essi non sarebbero in grado di svolgere il loro mandato con costrutto. Per le stesse ragioni non mi stupisce che Grillo abbia loro proibito di andare ai talk show e di limitare il più possibile interviste e dichiarazioni pubbliche.

Vediamo come la cosa andrà avanti e se questa mia denuncia avrà un seguito sulla stampa.

mercoledì 6 marzo 2013

Sulla Prorogatio

Sostengono i grillini che il parlamento possa già sin d'ora legiferare senza che essi debbano dover scegliere se dare o meno la fiducia al nuovo governo; e che anzi l'attuale governo, pur dimissionario, può andare avanti. Altri, fra cui Massimo Bordin di Radio Radicale, sostengono invece che che il parlamento non possa neppure funzionare nelle more di una crisi di governo. Chi ha ragione? Vediamo.

Andiamo per ordine. Monti ha formalmente presentato le dimissioni, e Napolitano le ha accettate. Qui sorge una prima domanda:

Le dimissioni del governo hanno valore giuridico? Sì, perché oltre a manifestare la volontà di Monti di cessare dalla carica, nel momento in cui sono accettate divengono ufficiali mediante la controfirma del relativo decreto. E l'effetto giuridico di ciò è che le dimissioni legittimano il Presidente della Repubblica a nominare un nuovo capo di governo. Cosa che altrimenti non potrebbe fare: infatti il Presidente della Repubblica non può dimissionare né il governo, né il suo presidente, né i singoli ministri (poteva farlo al tempo dello Statuto Albertino).

Vi sono altre conseguenze giuridiche delle dimissioni? Qui la questione è meno chiara. Il governo, si dice, resta in carica per il disbrigo degli affari correnti. Ma non esiste una definizione esatta di cosa affari correnti o ordinaria amministrazione significhino esattamente.

Cosa è classificabile come affare corrente e cosa non lo è? Il governo per definizione esegue ciò che la legge dispone. Se la legge ad esempio prevede che entro una certa data il governo debba presentare il DPEF (o come si chiama oggi), nonché la legge di bilancio, il governo è tenuto a farlo. E se invece presentasse un disegno di legge di riforma del codice della strada, oppure presentasse un decreto legge contenente misure per inasprire la lotta alla criminalità di strada, violerebbe forse la legge? Quindi la domanda è:

Se il Consiglio dei Ministri dimissionario deliberasse nuove iniziative politiche, i suoi membri (o coloro che li firmano) rischierebbero l'incriminazione per attentato alla costituzione? Per attentare alla costituzione occorre averne violato una o più norme. Ma in questo caso quali? La costituzione non dice esplicitamente che un governo dimissionario non possa proporre leggi o emanare decreti legge. E né lo si desume dall'insieme del testo.

Quindi la risposta è: no, il governo, finché è in carica, può deliberare nuove iniziative legislative.

Ma può il governo dimissionario fare davvero tutto ciò? Sì, se rispettivamente il Presidente della Repubblica e il Parlamento glielo consentono. Esempio: se il governo fa un decreto legge, il Presidente può rifiutarsi di controfirmarlo. Se presenta una proposta di legge il parlamento può bocciarla. Questo è in realtà il vero significato del restare in carica per il disbrigo degli affari correnti: siccome le dimissioni sono la conseguenza di una crisi politica, il governo non ha di fatto la forza di fare alcunché di rilevante. Ma in teoria avrebbe il diritto e il potere di farlo. In altre parole non stiamo discettando di cosa sia legale, ma di cosa sia politicamente fattibile.

Allora esiste una prorogatio del governo? La costituzione prevede esplicitamente la prorogatio delle camere quando le nuove non siano ancora riunite (dal che consegue che teoricamente a livello costituzionale Fini e Schifani potrebbero ancora convocare quelle precedenti per farle deliberare). Ma non prevede esplicitamente quella del governo.

Per cui per rispondere occorre fare qualche un passo indietro e chiarire un concetto di base:

Che cos'è il governo? Il governo è lo Stato. È il potere statale. Di chi è il potere statale? Del capo dello stato, che è il sovrano. Un tempo era il Re, oggi è il Presidente della Repubblica (che lo esercita nei limiti della costituzione, nelle forme della democrazia, rispondendo al parlamento, etc, etc., ma questo è un altro discorso). Per cui:

Che cos'è il governo (2)? È l'organo plenipotenziario a cui il sovrano delega l'esercizio del potere statale.

Il che, tradotto in norme costituzionali vigenti, significa che il Presidente della Repubblica ha l'obbligo di esercitare la sua sovranità. Che in quanto tale è per definizione senza soluzione di continuità. A tal fine la costituzione prevede sia la prorogatio in caso di fine mandato presidenziale e le camere non provvedano ad eleggere il nuovo presidente, sia le procedure in caso di impedimento.

Quindi, considerato che il Presidente della Repubblica ha l'obbligo costituzionale di assicurare che il governo eserciti detta sovranità, e che il governo è di fatto il sovrano (delegato dal Presidente della Repubblica), la conseguenza logica è che il governo deve essere necessariamente sempre nella pienezza dei poteri.

Quindi la risposta è: un governo dimissionario ha gli stessi poteri di uno normalmente in carica. E l'ulteriore conseguenza è che il Parlamento può legiferare normalmente.

C'è un però. Torniamo alle dimissioni del governo: esse sono state accettate e controfirmate. Ora il Presidente deve nominare un nuovo governo. Perché se non lo facesse rischierebbe che l'attuale prima o poi, per una ragione o per un'altra, cessi di funzionare. Siccome entro dieci giorni dalla nomina occorre il voto di fiducia del Parlamento, affinché la nomina vada a buon fine egli può o nominare un capo del governo gradito alle camere oppure può scioglierle nella speranza che nuove elezioni diano un contesto più favorevole. Napolitano ha sciolto le camere. Ora deve incaricare qualcuno. In teoria potrebbe scioglierle di nuovo, e poi continuare a scioglierle a oltranza finché le elezioni non danno una maggioranza chiara, ma così finirebbe per boicottare surretiziamente il potere legislativo venendo meno ai suoi doveri istituzionali. Quindi darà l'incarico a qualcuno di formare un nuovo governo, e questi, se accetterà, entro dieci giorni si presenterà alle camere per la fiducia. E lì finiranno le illusioni dei grillini e del Prof. Becchi di riformare il paese senza governarlo.

Ovvero: in teoria i grillini hanno ragione, ma in pratica, prima o poi (più prima -e più spesso- di quanto credano) saranno chiamati ad esprimersi su di un voto o una questione di fiducia.

C'è un'ipotesi residuale: il Napolitano e Monti firmano un decreto che revoca quello precedente delle dimmissioni. Roba da operetta. Tecnicamente dubbio, ma non impossibile. Violerebbe le prerogative del parlamento? No, perché questo non ha mai sfiduciato il governo. E in seguito a detto contro-decreto potrebbe comunque farlo.

Ma c'è un'altra ipotesi residuale: Napolitano potrebbe avviare (e passare al suo successore) una lunga negoziazione fatta di consultazioni, incarichi, rinunce, mandati esplorativi e quant'altro il lessico della prima repubblica ha coniato. La cosa potrebbe durare a lungo. Settimane, mesi, o anche anni, come in Belgio. Nel frattempo il paese, come detto, va governato. E sarebbe parimenti insostenibile che durante tutto questo tempo le camere restino congelate.

Veniamo ora al Parlamento. Quando il governo si dimette, si dice che le camere sono convocate a domicilio. Il che significa che i presidenti non convocano sedute, ma lo faranno quando il governo sarà operativo, notificando successivamente al domicilio dei parlamentari la nuova convocazione.

Perché durante una crisi di governo l'attività parlamentare è sospesa? Perché il governo, stante la situazione di incertezza, non è in grado di contribuire all'indirizzo politico del paese. Perché per definizione durante una crisi, il governo non sa quale sia la sua maggioranza parlamentare e se ce ne sia una. Quindi non è in grado di prendere posizione con piena cognizione di causa su quanto viene dibattuto.

Oltre a ciò, il parlamento sospende l'attività deliberativa, perché nelle more di una crisi politica la legge X approvata oggi potrebbe benissimo essere contraddetta dalla legge Y approvata l'indomani su proposta di un nuovo governo e maggioranza. Ovvero: provare a legiferare mentre le forze politiche negoziano il futuro del paese è nella maggior parte dei casi insensato, inefficiente, nonché una perdita di tempo.

Bordin fa poi notare che durante i voti in parlamento viene chiesto il parere del governo: la ratio di ciò è di assicurare la coerenza sistematica di quanto viene approvato: con il parere del governo i parlamentari hanno un'indicazione delle conseguenze (a dire del governo, ovviamente) che l'approvazione della norma comporterebbe. Ed è un'indicazione che solo il governo, con i suoi strumenti di conoscenza, analisi, previsione e gestione della cosa pubblica, può dare. Ma teoricamente nulla vieta a un governo dimissionario di dare i suoi pareri, se richiesti dal parlamento.

Conclusioni. I grillini possono legittimamente invocare lo scenario della prorogatio, ma deve essere chiaro che stanno proponendo un modello politico assembleare, in cui la centralità del potere è del Parlamento, e in cui il governo è ridotto a una mera appendice esecutiva dell'assemblea.

Chi propone un modello del genere, che ricorda i tempi della Rivoluzione Francese, ne prefigura uno in cui la nave non è più guidata dal capitano (pur legittimato democraticamente e coi contrappesi del caso), ma in cui ogni manovra viene di volta in volta decisa da una votazione dei marinai nella stiva, a colpi di maggioranza e a maggioranze magari variabili. In pratica un bordello in cui la responsabilità del buono o del cattivo governo sarebbe di tutti e di nessuno. Ovvero l'opposto del modello Westminster al quale abbiamo cercato di ispirarci nella seconda repubblica.

Ogni modello è legittimo, ma si sappia che se si toglie potere al governo si torna dritti alla prima repubblica.

domenica 3 marzo 2013

Una cosa a proposito del "parlamento pulito"

Chi scrive  è contrario a proposte quali il limite e due mandati parlamentari o il cosiddetto "parlamento pulito", cioè l'ineleggibilità di chi è stato condannato. Se il popolo vuole eleggere dei condannati come propri rappresentanti, siccome è sovrano, deve poter essere libero di farlo.

Ma tant'è: il Movimento Cinque Stelle si fa vanto della proposta. Vediamo allora come la applica. Indubbiamente i 162 eletti al parlamento sono "puliti", mentre Grillo non si è candidato appunto perché ha una condanna per omicidio colposo (come se un incidente stradale rendesse una persona indegna di fare il parlamentare, ma vabbè...).

C'è un però: appare sempre più evidente come gli eletti del M5S prendano ordini da Grillo. Cioè sono eterodiretti da un extraparlamentare condannato. I casi Favia e Salsi lo dimostrano: Grillo formalmente è solo il proprietario del blog e del simbolo della lista. In quanto tale inibì ai due l'uso del simbolo. In pratica la non ricandidatura, quindi l'espulsione politica.

La cosa ricorda la mafia siciliana quando si scoprì che era ancora comandata da Totò Riina, che, pur essendo in carcere, dava gli ordini tramite i pizzini. Grillo invece lo fa scrivendo articoli sul suo blog.

A cosa serva un parlamento di non condannati quando questi prendono gli ordini da un extraparlamentare condannato non mi è chiaro.

Quando ci saranno le consultazioni per nominare il nuovo presidente del consiglio Napolitano, per avere delle certezze e agire di conseguenza, vorrà parlare con chi comanda nel M5S. Se Grillo deciderà di presentarsi allora il fatto che quel partito politico è agli ordini di un condannato diverrà evidente a tutti. Con la conseguente perdita di credibilità che ne deriverà.