mercoledì 21 dicembre 2011

La Papi's Tax e l'effetto Monti

In ottobre avevo raccontato della balla della "Papi's Tax" di Tito Boeri. Nel suo articolo, che è del 23 settembre, Boeri scriveva:
A metà giugno lo spread fra i Btp decennali e i bund con la stessa scadenza era di quasi 70 punti inferiore a quello dei titoli di stato decennali spagnoli. Al momento di scrivere lo spread dell'Italia è di oltre 40 punti superiore a quello della Spagna.
Egli sosteneva che lo spread di circa 105-110 punti fosse spiegabile con la cattiva immagine di Berlusconi e con le esitazioni del governo in estate a varare una manovra correttiva dei conti pubblici.

Come è andata a finire, recita una frase ricorrente di un noto programma televisivo? Si guardi e si confronti i grafici, prima quello italiano (spread BTP-BUND), poi quello spagnolo (spread BONO-BUND):






Andiamo poi a vedere cosa è successo nell'ultimo mese, quando c'era chi discettava di "effetto Monti":



Attorno al 22-25 novembre gli spread dei due paesi hanno iniziato a calare, ma quello spagnolo è calato di più (il 20 novembre ci sono state le elezioni in Spagna). Verso il 5-6 dicembre gli spread hanno invece cominciato a risalire, solo che nel caso della Spagna la salita si è dapprima fermata e poi lo spread ha iniziato a scendere.

E "papi" allora? Si vede a colpo d'occhio che le tendenze sono simili e che tali sono rimaste anche dopo l'uscita di scena di Berlusconi. E che anzi negli ultimi dieci giorni mentre lo spread italiano sale quello spagnolo scende. Merito e colpa delle due diverse leggi finanziarie rispettivamente approvate e in via di approvazione dai due paesi? Chissà. Quale che sia la ragione, parafrasando Boeri:
Al momento di scrivere lo spread dell'Italia è di oltre 40 150 punti superiore a quello della Spagna.
Monti's tax? Ovviamente no, ma chi ragionasse in termini di propaganda e senza metodo scientifico come ha fatto Boeri potrebbe legittimamente argomentare che se prima era colpa di Berlusconi oggi è colpa del suo successore a Palazzo Chigi.

mercoledì 14 dicembre 2011

Credibilità e autorevolezza

Se la sinistra italiana fosse altrettanto brava nel governare quanto lo è nel fare i giochi di parole dovremmo farla governare sempre. Hanno basato la loro propaganda contro Berlusconi quale capo del governo sul fatto che non fosse né credibile né autorevole, verso i mercati e verso i partner europei. Tito Boeri arrivò fino al punto di teorizzare la mancanza di credibilità e autorevolezza quale causa del differenziale fra lo spread BTP-BUND e quello BONO-BUND.

Effetto Monti. Arriva, e per un po' lo spread resta alto, poi cala, però poi risale. E ciò nonostante i vertici europei in cui viene lodata la competenza, la credibilità, l'autorevolezza e tutto il resto degli aggettivi usati dalla propaganda.

Ma allora cosa è andato storto? In realtà nulla. Il fatto è che la sinistra ha spacciato la credibilità e l'autorevolezza personale per la credibilità e l'autorevolezza politica. Mentre la prima è la capacità di essere creduti e di convincere nei rapporti interpersonali, la seconda è la capacità di essere creduti e di convincere quando uno si assume degli impegni politici a nome del partito o paese che rappresenta. Se per la prima basta un sobrio professore universitario, per la seconda occorre un leader che comandi nel partito, in parlamento e/o nel paese. E va da sé che, se la prima aiuta (ed è bene averla, come in passato Berlusconi si vantava), la seconda è quella che conta.

Se Berlusconi aveva perso la prima, di certo, transfughi e ribaltoni a parte, aveva e ha tuttora la seconda. Mentre invece Monti ha la prima, ma, a prescindere dall'ampia maggioranza che lo sostiene (questa sì la più grande maggioranza nella storia della seconda repubblica), viste le difficoltà che ha a far passare la manovra, non ha la seconda.

Monti ha una sola arma: la minaccia delle dimissioni. Ma è un'arma spuntata, dato che è una carta che può giocare una sola volta, massimo due. E occorre saperla utilizzare: Monti, per quanto intelligente e consigliato, è pur sempre un dilettante della politica allo sbaraglio, un vaso di coccio in mezzo a dei vasi di ferro. Che ora lo stanno logorando (era così difficile prevederlo?).

Vedremo come andrà a finire. La partita è aperta, e Monti ce la può ancora fare, specie se la paura della crisi indurrà il paese a fare i sacrifici richiesti. Ma qualora dovesse ripresentarsi in Europa con una finanziaria annacquata da troppi compromessi il gioco di parole sarà evidente a tutti.

In politica è credibile e autorevole chi comanda, e comanda chi ha i voti. Qualcuno, dopo aver tifato per l'arrivo di Super-Mario-Deus-ex-Machina, adesso comincia ad accorgersene.

venerdì 9 dicembre 2011

Europa a due velocità

"Se oggi è nata un'Europa a due velocità è colpa della Gran Bretegna"
(Nicolas Sarkozy, 9.12.2011)

Il grafico qui sotto, che vale più di mille parole, mostra a quali velocità vanno i paesi dell'Euro e quelli che hanno scelto di non entrare:

(PIL pro capite espresso in PPP, fonte: IMF)

Comunque la si pensi, i fatti mostrano che non sono i paesi che hanno l'Euro ad andare alla velocità più alta.

domenica 13 novembre 2011

Il semplice perché della crisi di governo e della fine politica di Berlusconi

Contrariamente a quanto comunemente si creda (e si legga) i fatti dicono che il governo Berlusconi è finito, non perché sconfitto dai mercati o dall'UE o da Draghi o dalle opposizioni, ma semplicemente perché 34 deputati eletti nelle liste della maggioranza hanno fatto il salto della quaglia.

La carriera politica di Berlusconi poi si avvia alla fine per il semplice fatto che ha 75 anni, e che già da tempo aveva annunciato che non si sarebbe ricandidato alla carica di Presidente del Consiglio dei Ministri.

martedì 25 ottobre 2011

Note su debito e spesa pubblica

Una delle più sterili discussioni avviene quando i fan della sinistra sostengono che Prodi avrebbe messo i conti in ordine, mentre invece Berlusconi li avrebbe "scassati" (per usare le parole di Bersani).
Quando però si chiede in virtù di cosa, di quali provvedimanti, successi ed insuccessi sarebbero avvenuti, nessuno è in grado di dirlo. Perché, sia chiaro, la spesa pubblica aumenta o diminuisce non tanto per buona o cattiva gestione, ma perché vengono approvate leggi che la fanno aumentare o diminuire.

L'errore che viene comunemente fatto è quello di prendere il debito e la spesa pubblica come percentuale del PIL: così facendo basta che sia il PIL ad aumentare o diminuire per cambiare le cose. Come in questo grafico (fonte: Eurostat):



Se prendiamo il debito pubblico come percentuale del PIL esso è diminuito. Ma la ragione è che negli anni in cui è diminuito è il PIL ad essere aumentato. Infatti se prendiamo il debito in valori assoluti:


E qui è in valori assoluti, ma paragonato al debito di Germania, Francia e Spagna:


Il grafico seguente (fonte: BCE) mostra la spesa pubblica (in miliardi di Euro) in valori assoluti dal 1980 ad oggi:


Come si vede, ci sono degli anni in cui rallenta a cui seguono dei picchi che riportano la crescita a un'inclinazione costante. In particolare, durante la legislatura 1996-2001 (governi Prodi, D'Alema e Amato, con Ciampi e Visco), questa fu la spesa:

1997 - 527.045
1998 - 534.337
1999 - 542.566
2000 - 549.009
2001 - 598.977

Ovvero la spesa crebbe poco dal 1997 fino al 2000 (solo 22 miliardi di euro), ma in un solo anno, dal 2000 al 2001 crebbe di 49 miliardi. Quali furono le ragioni (spese posticipate, incassi anticipati, rinnovi dei contratti dei dipendenti, etc.) è cosa che lascio a chi voglia andare ad analizzare i dettagli delle maggiori spese e le loro cause. Quello che conta è la tendenza di lungo periodo.

Un'ultima osservazione: nel quinquennio dell'Ulivo la crescita della spesa pubblica diminuì, salvo poi aumentare di molto l'ultimo anno. Anche in questi ultimi anni il governo è riuscito a diminuire la crescita, e nel 2010 la spesa pubblica è addirittura diminuita rispetto all'anno precedente:


Questo grafico del FMI mostra anche la proiezione per gli anni futuri fino al 2015: come si vede, a meno di non fare riforme strutturali (delle pensioni, della sanità, del pubblico impiego, etc.), a periodi di risparmi seguono periodi in cui la spesa aumenta vanificando i risparmi precedenti.

mercoledì 12 ottobre 2011

La gioiosa macchina da guerriglia

È certamente cosa lecita ipotizzare che quando il governo va sotto dietro ci siano non delle mere assenze casuali, ma delle assenze volute. Che quello sia lo scenario da approfondire non toglie il fatto che sarebbe bastato un deputato in più rientrato in aula qualche secondo prima per parlare oggi d'altro.

Come ho scritto in un articolo precedente, quando un governo ha un margine di una trentina di deputati è statisticamente facile mandarlo sotto. Basta che i ministri stiano facendo altro, che dei deputati siano in missione, etc. etc.

Se poi a tutto ciò si aggiunge la tecnica dell'opposizione di presentare centinaia di emendamenti, inutilissime mozioni, richieste di verifica del numero legale e quant'altro i regolamenti parlamentari permettono, l'opposizione nei fatti ha il potere di rallentare -e di molto- il processo di approvazione delle leggi.

Nello specifico ieri le cose sono andate così:
Il trucco di Giachetti, deputati nascosti prima del voto
Tre democratici in corridoio, rientrati per la conta decisiva

Roma, 11 ott. (TMNews) - Il giochetto di Roberto Giachetti: non è uno scioglilingua ma un piccolo tranello orchestrato ai danni della maggioranza dal segretario d'aula del Partito democratico alla Camera. Pochi istanti prima della votazione che ha affondato l'articolo 1 del rendiconto finanziario dello Stato, in un'altra votazione la maggioranza se l'era cavata per pochi voti.

In quel momento, secondo quanto raccontano fonti parlamentari dell'opposizione, Giachetti aveva 'nascosto' in un corridoio tre deputati per tenere leggermente più bassi i numeri dell'opposizione e depistare la maggioranza. Quei deputati poi sono rientrati insieme in aula cambiando i numeri al momento opportuno e determinando la sconfitta della maggioranza alla presenza del presidente del Consiglio.
Questa è guerriglia parlamentare. Solo che così facendo il PD fa perdere tempo al parlamento, che dovrà votare di nuovo il bilancio, e quindi al paese.

Questo è sfascismo: qui non ci sono i diritti costituzionali in gioco, cosa che giustificherebbe quest'atteggiamento, ma c'è il legittimo desiderio di una maggioranza scelta dal popolo di dettare l'agenda politica e di approvare le leggi proposte.

Il parlamento non è una campo da battaglia dove si tenta di dare spallate al governo per avere i titoli dei giornali. Comportarsi così non è degno della leale opposizione di sua maestà. Quella che vorrebbe un domani andare al governo. E che ci deve andare solo se convince il popolo di essere migliore di chi governa oggi. Ma essere leali è incompatibile col sabotare l'indirizzo politico della maggioranza. Quello è un comportamento sleale.

Il PD deve scelgiere una buona volta se vuole essere un partito di lotta o un partito di governo: Berssani & Co. avrebbero fatto una figura migliore se avessero fatto uscire qualche deputato dall'aula, e avessero poi rivendicato il merito di aver fatto passare il bilancio, a fronte di una maggioranza incapace di portare i suoi in parlamento.

Invece ancora una volta hanno preferito giocare la carta dello sfascismo, del tanto peggio tanto meglio. E purtroppo non è una mera scelta errata del gruppo dirigente del PD, ma un retaggio culturale dell'ex-PCI, abituato a usare la piazza come un luogo dove celebrare un rito che evocasse la rivoluzione di popolo contro l'ordine costituito.

E quel che è peggio è che il popolo della sinistra incoraggia questo tipo di comportamento: infatti ogni volta che la maggioranza approva una legge particolarmente sgradita sono pronti numerosi gruppi di elettori "indignati" che rinfacciano questa e quell'assenza in aula di deputati dell'opposizione e che chiedono a Napolitano di farsi loro complice non firmandola.

Occorre purtroppo prendere atto che il centrodestra si trova ancora, a 17 anni di distanza, a fronteggiare uno schieramento, in parlamento e nel paese, che ha la mentalità della gioiosa macchina da guerra. Solo che oggi, confinata all'opposizione in parlamento, è solo una gioiosa macchina da guerriglia.

mercoledì 5 ottobre 2011

La balla della "Papi's Tax" di Tito Boeri

Cronache dal Coglionistan si occupa oggi di Tito Boeri, noto al grande pubblico per essere uno degli accademici che Floris invita ogni tanto per sostenere le ragioni del PD. Egli è professore di economia all'Università Bocconi; è il fondatore del sito La Voce, su cui il 23 settembre ha pubblicato un articolo intitolato La Papi's Tax, tradotto il 4 ottobre in inglese sul sito Vox-EU, nel quale sostiene che il maggiore tasso d'interesse sui titoli di stato che l'Italia sta pagando in questi ultimi mesi rispetto a quello pagato dalle corrispettive obbligazioni spagnole sarebbe da attribuire alla cattiva azione del governo durante l'estate e alla cattiva immagine di Silvio Berlusconi, che, a causa dei ben noti scandali, ingenererebbe sfiducia negli investitori. A rinforzo della sua tesi Boeri cita imprecisati studi

tra l’economia e la psicologia, basati su tecniche di priming, che documentano come gli individui messi a conoscenza di particolari poco edificanti sulla vita privata dei leader politici rinuncino a comprare i titoli di stato di quei paesi.
Ciò, secondo Boeri,
spiegherebbe il nuovo allargamento dello spread dopo la pubblicazioni delle nuove intercettazioni sulla vita privata del nostro premier.
Qui si può fare subito un appunto: se esistono studi che provano tale rapporto di causa ed effetto, la pubblicazione delle intercettazioni spiega o, come scrive Boeri usando la forma dubitativa propria del condizionale, spiegherebbe l'allargamento dello spread?

In altre parole, Boeri è sicuro di ciò che afferma o sta solo facendo un'ipotesi?

Boeri però, ipotesi o certezza che sia, continua ad argomentare:
Per capire quanto sia rilevante, ponetevi la seguente domanda: comprereste un auto usata da chi, ne avete la prova, in pubblico dice una cosa e, in privato, ne fa un’altra? Finché rimane a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi è, volenti o nolenti, il primo venditore dei nostri titoli di stato e non vi è dubbio che il mercato ci fa pagare un prezzo anche per la sua scarsa credibilità personale.
Altro appunto: per quanto suggestivo possa essere, ha senso paragonare un titolo di stato ad un'auto usata? Un'auto d'occasione può celare difetti non dichiarati dal proprietario che un normale acquirente non è in grado di notare. Quindi, siccome l'acquirente può solo fidarsi del venditore, la credibilità di quest'ultimo è determinante.

Ma un titolo di stato quali difetti può nascondere? In sé ovviamente nessuno. L'unico timore dell'investitore è una futura volontà di chi lo emette di non onorare il suo debito, in tutto o in parte. E cosa può portare l'Italia a ciò? Un peggioramento dei conti pubblici stile Grecia o Argentina 2001. Quindi Boeri pare suggerire che i comportamenti privati di Berlusconi ingenerino negli investitori timori di buchi di bilancio, occultati o che si produrranno in futuro, i quali in ultima analisi provocherebbero il default.

Credo che a questo punto sia evidente a tutti che il condizionale è d'obbligo: l'affermazione di Boeri, giusta o sbagliata che sia, è astrattamente indimostrabile. Tuttavia ciò non toglierebbe che possa essere ragionevolmente condivisibile. Ma non lo è. Vediamo perché.

Boeri correda il suo articolo di un grafico nel quale mostra che, in corrispondenza di certi eventi accaduti durante l'estate, lo spread Italia-Spagna (in rapporto ai bund tedeschi decennali) sia aumentato. Ma il grafico riportato da Boeri prende in considerazione solo il periodo successivo al 24 giugno 2011. Andiamo a vedere qual era lo spread prima. La prima figura qui sotto (i grafici sono a disposizione di tutti sul sito della Bloomberg) mostra la differenza negli ultimi dodici mesi fra lo spread fra i titoli di stato italiani e tedeschi a scadenza decennale e lo spread fra quelli spagnoli e tedeschi. In pratica lo spread italiano è la linea arancione e quello spagnolo la linea verde.



Come si vede, prima del mese di agosto la differenza era sostanzialmente nulla e prima ancora era la Spagna a pagare un tasso maggiore. Forse in quel periodo le vicende personali di Berlusconi non erano note?


Si osservi poi i due grafici seguenti: il primo mostra la differenza fra il tasso francese (abastanza stabile, in arancione) e quello italiano (in verde) negli ultimi cinque anni, e il secondo la differenza fra tasso francese e spagnolo nello stesso arco di tempo. Come si può notare a colpo d'occhio le due curve verdi non sono molto diverse.



Le vicende giudiziarie di Berlusconi erano già note in tutto il mondo nel 2007, quelle private (dal caso Noemi in poi) iniziano a maggio del 2009. Se qualcuno vuole trovare correlazioni fra l'andamento del tasso italiano e le vicende Noemi, D'Addario, foto in Sardegna, Minetti, Ruby e quant'altro temo sarà un'arrampicata sugli specchi.

Sarebbe stato più onesto da parte di Boeri scrivere che lo spread italiano riflette la paura generata dal possibile default greco, dato che l'Italia è in percentuale il secondo paese più esposto ai finanziatori dopo quello ellenico. E che Italia e Spagna sono trattati dagli investitori in maniera simile, e che ciò che conta è che la Spagna ha oggi un debito attorno al 67% del PIL, mentre l'Italia lo ha al 120%.

L'articolo di Boeri sarebbe stato più credibile se si fosse limitato a dire che
I punti accumulati sembrerebbero riflettere ritardi nella reazione del nostro governo almeno rispetto a quello spagnolo, pur dimissionario.
Tuttavia questa frase contiene una bugia: infatti il governo spagnolo non è dimissionario, come chi legge questo blog sa.

Conclusioni

L'articolo di Tito Boeri appare come un tentativo di mascherare da dotta analisi finanziaria quello che in realtà è uno dei tanti articoli di propaganda politica. Il succo del suo discorso è che la Spagna andrebbe meglio dell'Italia, perché Berlusconi, a differenza di Zapatero, ha una vita privata sregolata, e in più non si vuole dimettere. Se l'avesse messa in questi termini invece di confondere le acque, sarebbe stato più sincero.

* * *

Aggiornamento, 2011/10/07 -  Il fondo previdenziale danese ATP (un patrimonio di circa 122 miliardi di dollari) ha annunciato che non investirà più in buoni del tesoro italiani, francesi o di altri paesi mediterranei. Si noti bene: non solo italiani o dei paesi "PIGS", ma anche francesi. Sarà mica colpa della Carla's Tax?

Aggiornamento, 2011/10/09 - Ero stato il primo a commentare l'articolo sula Papi's Tax, facendo notare l'errore delle dimissioni di Zapatero, ma, a differenza di altri, non ho ricevuto risposta. È da qualche giorno che ho messo un commento all'articolo su VoxEU, dove ho fatto notare l'errore sulle dimissioni di Zapatero e sul fatto che la supposta "Papi's Tax" opererebbe da quest'estate, ma curiosamente nei due anni precedenti no. Il commento è tuttora in attesa di moderazione. A questo punto temo che resterà tale. La cosa non fa onore a Tito Boeri, ma conferma la mia sensazione che quell'articolo sia un caso in cui si cerca di piegare i fatti alle proprie opinioni. Ricordatevelo quando lo vedrete di nuovo parlare in veste di accademico a Ballarò.

Aggiornamento, 2011/10/12 - Vedo dalle statistiche degli accessi al sito che qualcuno del sito VoxEU ha ricevuto e letto il mio commento, e ha fatto click sul link che porta a quest'articolo:

Tuttavia il mio commento sul loro sito è tuttora in attesa di moderazione.

Aggiornamento, 2011/10/12 (2) -Il Prof. Ugo Arrigo, che insegna Scienza delle Finanze all'Università La Bicocca di Milano, ha fatto questa considerazione in un suo articolo su Il Fatto Quotidiano:

Ovvero, Arrigo dice che occorre cambiare chi fa la politica economica del paese, ma che -attenzione- non vi è un'opposizione pronta a prendere la direzione auspicabile, e per questa ragione i mercati stanno punendo l'Italia con un alto tasso d'interesse.

Allora la vogliamo dire tutta? Altro che "tassa Berlusconi": la Spagna sta beneficiando -fra le altre cose- di una "non tassa Rajoy", cioè l'aspettativa dei mercati che con un governo PP il paese otrnerà a crescere. Cosa che noi non abbiamo: anzi i mercati sanno perfettamente che o governa Berlusconi (con Tremonti) o governa Bersani (con Vendola): questa è la tassa che abbiamo sul groppone.

Aggiornamento, 2011/10/14 - Dopo Fitch, oggi anche S&P ha abbassato il rating della Spagna.

Aggiornamento, 2011/10/19 - ...e oggi è il turno di Moody's, che ha declassato la Spagna da Aa2 ad A1.

martedì 4 ottobre 2011

Dimissioni? Perché mai?

Cercate "cacciare il governo", e Google vi troverà ben un milione e trecentomila occorrenze. Oggi financo Confindustria intima che il governo in carica, o fa quello che gli industriali chiedono, oppure se ne deve andare. La richiesta è poi ripetuta dai tre maggiori giornali italiani (Corriere, Repubblica e Stampa), e dalla blogosfera tutta.



Fonte: Il Foglio

Pare che rispettare le regole del gioco e aspettare le prossime elezioni, che saranno al più tardi fra diciassette mesi, sia un qualcosa di insostenibile. Che oggi saremmo sull'orlo del baratro, e che se non cambiamo guida nel baratro ci cadremo per davvero. Che il nuovo governo che sostituirebbe l'attuale sarebbe in grado di fare tutte le riforme che la maggioranza del Caimano si ostina a bloccare.

Stupisce il fatto che a nessuno venga in mente una semplice considerazione di buon senso: che le riforme le fa il parlamento e non il governo. E che questo parlamento non ha nessuna intenzione di farle, perché ritiene che la maggioranza degli elettori  non le voglia.

Quindi chi vuole cacciare questo governo dovrebbe invocare le elezioni anticipate. Allora Bersani dice
Berlusconi faccia come Zapatero, "o si va a votare subito o si trova lo spazio di una soluzione transitoria in netta discontinuita' con il passato". Per Bersani il premier "dovrebbe andare al Quirinale e rimettere il mandato nelle mani del Presidente Napolitano"
Il problema è che Bersani racconta balle: Zapatero non si è dimesso. Egli un giorno è andato dal Re di Spagna e gli ha chiesto di sciogliere le camere, cosa che, ai sensi dell'art. 115 della Costituzione Spagnola, il Re ha fatto:
El Presidente del Gobierno, previa deliberación del Consejo de Ministros, y bajo su exclusiva responsabilidad, podrá proponer la disolución del Congreso, del Senado o de las Cortes Generales, que será decretada por el Rey. El decreto de disolución fijará la fecha de las elecciones.
Per cui il governo Zapatero è rimasto nel pieno dei suoi poteri, e ha solo fissato a suo piacimento elezioni anticipate a sorpresa.

Volete che Berlusconi faccia lo stesso? Non si direbbe. Quando a luglio 2010 i finiani uscirono dalla maggioranza a Berlusconi fu detto che Napolitano non avrebbe concesso le elezioni anticipate, ma che avrebbe cercato di salvare la legislatura, che Berlusconi avrebbe dovuto prima dimettersi, che il Presidente della Repubblica avrebbe tentato la strada di un governo di transizione/tecnico/di-unità-nazionale (o altre formule di fantasia per infinocchiare la gente), etc. Ovvero, a Berlusconi fu fatto capire che avrebbero cercato di fargli le scarpe in parlamento con un ribaltone, altro che dare la parola al popolo. Di qui la contromossa di inglobare i "Responsabili". Che altro poteva fare?

Si dirà: ma Zapatero, oltre alle elezioni anticipate, ha annunciato che non si ricandiderà, e quelle sono dimissioni di fatto. Ma anche Berlusconi ha detto che il prossimo candidato premier sarà Alfano. Quindi ha fatto come Zapatero. Manca solo lo scoglimento delle camere. Ma quello è la sinistra a non volerlo.


Aggiornamento - La Repubblica ha appena messo come prima notizia delle dichiarazioni di Tremonti:

Alla domanda dei giornalisti poi su perché la Spagna paghi meno interessi dell'Italia sul debito, risponde che "potrebbe dipendere dall'annuncio di elezioni anticipate". E allora perché non fare lo stesso? "Ho detto così per dire", ha risposto sorridendo il ministro.
Ovvero si persevera nell'equivoco: Berlusconi, anche se lo volesse, non potrebbe indire elezioni anticipate senza il consenso di Napolitano. E secondo molti costituzionalisti il consenso del Presidente della Repubblica è subordinato al venir meno di una maggioranza in parlamento.

mercoledì 28 settembre 2011

Non esistono riforme "a costo zero"

Una delle balle ricorrenti nel libero stato del Coglionistan è che in questo periodo di difficoltà finanziarie si possa fare delle riforme "a costo zero", cioè che non incidono sui conti pubblici e che invece generano sviluppo.

Ma se davvero non costano niente, perché non vengono fatte? Credete che i nostri governanti siano financo incapaci di raccogliere le centinaia di suggerimenti che gli arrivano?

There is no free lunch, diceva un noto economista. Qualcuno che paga c'è sempre. Anche se la riforma viene definita per fare propaganda "a costo zero".

Un esempio: l'avvocatura. Benché liberalizzare gli accessi alla professione, le tariffe, la pubblicità, permettere il patto di quota lite e la strutturazione degli studi legali in società di capitali potrebbero essere misure condivisibili, gli avvocati finirebbero per pagare un prezzo. Per quale motivo credete che  si oppongano, perché sono dei cattivi che fanno la bella vita come dei parassiti sulle spalle della società che suda?

Di più, se duecentoconquantamila e passa avvocati oggi si spartiscono il "mercato" della rappresentanza in giudizio e della consulenza stragiudiziale, dato che la domanda di ciò più di tanto non può crescere (ed anzi è bene che non cresca), non potrà crescere l'offerta, che è anzi già alta, al punto che Giavazzi e Alesina sul Corriere hanno chiesto il numero chiuso a Giurisprudenza (il che sarebbe un modo surretizio di tornare ad un'avvocatura a numero chiuso, come prevedeva un tempo la legge, senza violare la Costituzione).

Liberalizzare le tariffe? In teoria una buona cosa, ma esse sono già basse. Andate a parlare con un avvocato in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, e vi arriverà un conto per centinaia di dollari l'ora. Permettere la pubblicità? Ottimo, ma i relativi costi in ultima analisi verranno scaricati nella notula che pagherete.

La liberalizzazione dell'avvocatura, più che una misura per lo sviluppo è una questione di pari opportunità fra outsiders e insiders, con i primi che spingono affinché ciò avvenga e i secondi che difendono le loro fonti di reddito, con cui mantengono se stessi e le loro famiglie.

Se si liberalizza l'avvocatura ci saranno sì opportunità, ma si sappia che una delle conseguenze sarà che certi studi legali chiuderanno, che certi avvocati diverranno disoccupati, che i giovani in teoria potranno aprire il loro studio, ma che in un mercato saturo faranno fatica a trovare i clienti, che taluni giovani pur di entrare in uno studio affermato finiranno per pagare di tasca loro il tirocinio, e che l'avvocatura diverrà un business come un altro, con licenziamenti, mobilità, prezzi di mercato, che potrebbero essere alti o bassi.

Messa così siete disposti a pagare il costo della riforma?

mercoledì 31 agosto 2011

Dov'è la festa? E cosa si festeggia?

Una discussione sorta sulla questione dell'accorpamento delle feste civili (si veda qui e qui ) mi ha indotto a scrivere quanto segue, al fine di chiarire una volta per tutte il mio pensiero:

Se tu dici a qualcuno che è fascista o nazista, evidentemente lo stai insultando, dato che attribuisci alla sua persona, alle sue idee, ciò che la nostra società considera comunemente fra i peggiori disvalori umani. Eppure questi epiteti originariamente non erano insulti: se uno li avesse rivolti negli anni trenta sarebbe stato come dire oggi leghista o socialdemocratico, per dire.

Allo stesso modo c'è un significato originario del 25 Aprile, che è la vittoria militare degli Americani sui Tedeschi con ciò che ne conseguì: la pace, il cambio di regime (da una dittatura social-nazionalista a una democrazia occidentale) e il passaggio dalla sfera d'influenza tedesca (nazista) a quella americana. E c'è un significato d'uso comune, che ha trasformato quanto sopra nella celebrazione della resistenza rossa contro, non solo il fascismo, ma ciò che in seguito si è ad essa e alle sue aspirazioni frapposto, impedendo la presa del potere ai partiti espressione della stessa ideologia: il MSI, la DC, i partiti laici, poi i Radicali, poi il PSI di Craxi, fino a Berlusconi oggi. Al punto che andare a celebrare il 25 Aprile in un cimitero di soldati americani (gli USA in effetti fanno parte della suddetta lista) è considerata una provocazione.

Chiedere l'abolizione del 25 Aprile significa quindi, non tanto chiedere l'abolizione della ricorrenza che celebra la fine della guerra e il ritorno dell'Italia nell'occidente, nonché il sacrificio di soldati e partigiani che persero la vita per darci la libertà, ma significa smettere di celebrare una supposta guerra di popolo che negli auspici delle sue supposte avanguardie avrebbe dovuto determinare il passaggio dell'Italia, non "a occidente" ma "a oriente". E significa smettere di celebrare il rancore che è derivato dalla vanificazione di quegli obiettivi.

Detto questo, smettiamo anche una volta per tutte di dire che prima era una festa condivisa, e che è stato Berlusconi, sdoganando AN, a rompere le uova nel paniere: anche quello è un basso tentativo dialettico di legittimare una celebrazione che, per quel che è divenuta, non sta in piedi.

È sufficiente citare un passo dell'odiato Giampaolo Pansa, tratta dal libro La Grande Bugia a pagina 102:
«La sconfitta del Fronte nelle elezioni del 18 aprile aveva esasperato i partigiani comunisti. Sette giorni dopo il voto, ossia il 25 aprile 1948, accadde l'impensabile. A Milano si stava celebrando la liberazione. Tra gli oratori c'era Parri, accanto a Luigi Longo. I comunisti cominciarono a fischiarlo, per impedirgli di parlare. Allora Parri interruppe il discorso e scese dal palco. Lo riprese poi, e soltanto per le insistenze di Longo.»
Capito? Il 25 Aprile 1948 (e non 1994) fu impedito di parlare persino a Ferruccio Parri, antifascista, partigiano, nonché capo del primo governo dopo la liberazione, e non certo uomo di sdoganamenti o revisionismi.

Ecco, credo che queste mie parole bastino a spiegare perché la maggioranza degli Italiani non si riconosce nelle celebrazioni, di cui legge e vede i resoconti su giornali e tv, che hanno egemonizzato il 25 Aprile al punto da esserne divenute a pieno titolo l'essenza stessa. Se essa non è la festa di tutti gli Italiani, è legittimo chiederne l'abolizione.

lunedì 29 agosto 2011

L'Unità: sciocchezze estive

Non perdetevi il dossier i 10 anni di Berlusconi che hanno causato il declino di Michele Prospero (e altri geni dell'economia) pubblicato dall'Unità.
Già il titolo indica un supposto rapporto di causa ed effetto fra il declino e chi ha governato. Solo che Prospero & co. si limitano ad affermarlo senza dimostrarlo. Direte: ma se in un paese le cose vanno male è chi lo governa a doverne rispondere. Vero. Ma chi governa l'Italia? La risposta giusta è "l'insieme delle leggi vigenti". Continuiamo a leggere il dossier dell'Unità e capirete dove voglio arrivare.
Prospero scrive:
Di politiche economiche ed industriali neanche l’ombra.
Ma da che mondo viene?  Lo sa il Sig. Prospero che in un paese a libero capitalismo non è compito dello stato fare politiche industriali? Che per quello ci sono i privati imprenditori? Peggio ancora fa quando evoca la:
pretesa di prospettare un capitalismo che si autogoverna con imprenditori saliti al potere e fa a meno della mediazione politica
Dove per mediazione politica forse inconsciamente intende le mazzette a Penati e il sistema delle coop...
Andiamo avanti: in un articolo del dossier è un tale Ronny Mazzocchi (è lui?) a sostenere l'accusa nei dettagli. Egli dice che in Italia ci sarebbe bisogno di:
una ristrutturazione non solo della struttura produttiva, ma anche dei modelli organizzativi e manageriali
E chi dovrebbe ristrutturare caro Mazzocchi se non le imprese stesse? Mica è compito dei politici dettare alle imprese strutture produttive e modelli organizzativi e manageriali. Almeno non in una società libera.
Altra perla:
Si è fatta così largo la concezione semplicistica per cui la crescita economica si sarebbe ottenuta se tutti avessero prodotto di più
Sì caro Mazzocchi: se la produttività (la produttività e non la produzione) cresce, cresce il paese. Poi aggiunge:
La crescita di una economia, infatti, dipende dalla nascita di nuove imprese, dall’aumento della dimensione di quelle già esistenti e dal progresso tecnologico.
Quest'affermazione può essere condivisibile: sono tre fattori che possono determinare crescita. Mazzocchi dice che in Italia le cose vanno male perché le aziende non crescono e non fanno ricerca. E addossa la responsabilità a un supposto modello "piccolo è bello" voluto dal governo Berlusconi.

A parte il fatto che quel modello è parto della sua fantasia (di Mazzocchi), la realtà è che le imprese non crescono, perché il diritto del lavoro le scoraggia a farlo, dato che se un'impresa ha più di 15 dipendenti perde il diritto di licenziare i collaboratori. Poi inizia a trovarsi i sindacati in azienda. E perché il costo del lavoro è alto. E viene negoziato a livello nazionale. E le imposte sulle società e il livello delle imposte in generale deprime il settore privato. E perché la burocrazia è un ostacolo.

È ovvio che in un contesto del genere ci sono potenziali imprenditori che preferiscono investire nel mattone invece che creare ricchezza. È ovvio che chi cerca di stare sul mercato ricorre a precari. È ovvio, ma non lo è a Mazzocchi.

Passiamo ora ad un altro articolo dell'Unità. Ecco il titolo (non ridete):
Sondaggi: il Pdl crolla superato dal Pd al 25%
Non so se avete notato: l'Unità canta vittoria perché il PD è al 25%. Alle elezioni del 2008 (perse) prese il 33%, a quelle del 2006 (quasi perse) la lista L'Ulivo (precursore del PD) prese il 31% e altrettanto presero DS e Margherita a quelle del 2001 (perse).

Ovviamente il calo dei consensi del PDL è dovuto alla crisi economica, dalle misure impopolari in discussione in questi giorni e soprattutto dall'aumento delle tasse. Ma il problema è che quei consensi non stanno andando al PD. Vanno in astensione o al terzo polo. Che per ora pare non abbia nessuna intenzione di allearsi col centro-sinistra. E che se rimarrà "terzo" polo alle prossime elezioni, o darà agli elettori l'impressione di poter vincere oppure verrà cannibalizzato, soprattutto dal centro-destra.  E ai giornalisti e ai lettori dell'Unità resterà il ricordo di un paio di colpi di sole presi nel mese di agosto 2011.

giovedì 25 agosto 2011

Dimezzare i parlamentari? No, meglio abolire il Senato

Ci sarebbe una riforma talmente semplice, talmente razionale, talmente ovvia, talmente “a costo zero”, talmente benefica, che non la propone nessuno: l’abolizione del Senato.

Per queste ragioni:
  • è un inutile doppione della Camera; rallenta il processo legislativo costringendo il governo a ricorrere sistematicamente alla decretazione d’urgenza,
  • non è rappresentativo di tutta la popolazione, ma solo di chi ha più di 25 anni,
  • attualmente il 2.5% dei suoi componenti (otto senatori a vita), una percentuale che in caso di esito elettorale sul filo di lana può ribaltare la maggioranza, non è eletto dal popolo. E detta percentuale può addirittura aumentare fino a 14 (il 4.4% dei componenti): Napolitano non ha ancora nominato nessuno, ed egli stesso, se non rieletto nel 2013 si aggiungerà alla lista di quelli in carica,
  • in virtù di un articolo della Costituzione (“il Senato è eletto su base regionale”) abbiamo una legge elettorale che ogni volta rischia di non dare una maggioranza certa al Senato. Abolendolo, l’attuale legge elettorale diverrebbe niente male,
  • con una legge elettorale maggioritaria, qualsiasi essa sia, vi è il rischio che il popolo elegga in ciascuna camera maggioranze di colore diverso.
Abolire il Senato ridurrebbe i costi non della metà, ma di un terzo. Mi accontento. In fondo abbiamo un deputato ogni 90 mila cittadini e un senatore ogni 180 mila. Riducendo della metà avremmo un deputato ogni 180 mila e un senatore ogni 360 mila.

Invece si vagheggia di un “senato delle regioni”, come se in Italia avessimo il problema di dare alla Valle d’Aosta lo stesso peso rappresentativo della Lombardia...

Si obietterà che la doppia lettura delle proposte di legge è una forma di garanzia. Vero, ma è anche una forma di deresponsabilizzazione di ciascuna camera. E che ha la nefasta conseguenza che, per evitare le lungaggini dell'iter normale, ogni legge importante viene dapprima adottata dal governo mediante un decreto, e successivamente dal parlamento mediante un voto di fiducia.

Si obietterà anche che salterebbe la rigidità della Costituzione ex art. 138. Per mantenerla si potrebbe ipotizzare due soluzioni:
  • Soluzione rigidissima: che ogni modifica della carta sia approvata dalla Camera e da alcuni consigli regionali
  • Soluzione meno rigida: che ogni modifica della carta sia approvata dalla Camera a maggioranza assoluta in due successive votazioni in due legislature consecutive, affinché fra la prima e la seconda votazione intervenga il vaglio degli elettori.
Si obietterà che è giusto che ogni ex presidente della repubblica sia un senatore a vita affinché goda dello status e delle tutele dei parlamentari. Basta mettere in costituzione che ogni ex presidente gode delle stesse immunità dei deputati (o addirittura di immunità maggiori), ma non del seggio.

Semplice, no?

venerdì 12 agosto 2011

Almeno un po' di trasparenza

Qualunque sia il contenuto della manovra che verrà approvata, sarà Berlusconi a (ri)metterci la faccia. Anche se alla fine verrà deciso di alzare le tasse per non tagliare le pensioni. Se questa sarà la scelta, sarebbe opportuno che a metterci la faccia fosse anche Bossi. E che quindi Alfano Berlusconi vada in televisione e dica: "avremmo voluto tagliare le pensioni invece di alzare le tasse, ma la Lega Nord non ce lo ha consentito". E magari, nei prossimi mesi, si ricordi di aggiungere che le quote latte, i ministeri a Monza, il no all'accorpamento di comuni e provincie sono tutte imposizioni della Lega Nord.
Se elezioni anticipate hanno da essere, almeno che la gente possa conoscere per deliberare.

mercoledì 10 agosto 2011

Se un paese non ha coraggio, neanche un tecnico glielo può dare

In un articolo intitolato Cosa fare e cosa non fare Michele Boldrin, professore di economia, nonché forte critico (per usare un eufemismo) di Berlusconi e Tremonti, propone un governo tecnico che gestisca l'emergenza finanziaria venutasi a creare negli ultimi giorni facendo quelle riforme che ogni governo "politico" rimanda da lustri a tempi migliori.

Al di là delle ben note considerazioni sulla democraticità dei governi "tecnici", sul fatto che essi devono comunque poggiare su di una maggioranza politica (e quindi in tacito accordo con essa fanno le loro proposte), e sul fatto che le precedenti esperienze (governi Ciampi e Dini) non promettono nulla di buono, un semplice appunto lo si può fare: Boldrin auspica che il governo tecnico faccia riforme sensate, quale una

Riforma pensionistica immediata che porti, nell'arco di 15 anni, il rapporto spesa pensionistica su PIL al 10%. Le misure le sappiamo tutti e consistono, fondamentalmente, nell'innalzamento uniforme e progressivo dell'età di pensione, nella restrizione delle invalidità e nel passaggio immediato di TUTTI al regime della riforma Dini.
Ottimo proposito. Ma siamo sicuri che ciò non sia stato fino ad ora fatto perché al governo ci sono Berlusconi e Tremonti, e che invece un governo tecnico riuscirebbe a farlo?

Ecco, per farla breve, credo che uno screenshot appena preso dal sito web del Corriere della Sera valga più di mille mie parole:



Draghi, Monti, Giavazzi, Alesina, Boeri e pure Boldrin saranno anche bravissimi, ma dubito che abbiano la forza di imporre al paese ciò che il paese ha sinora mostrato di non volere inducendo i suoi politici a comportarsi di conseguenza.

martedì 26 aprile 2011

Considerazioni sul divieto di ricostituzione del partito fascista

Il divieto di ricostituire il partito fascista, o ipoteticamente qualsiasi altro partito, mi ha sempre convinto poco. Per queste ragioni:
  1. Rinneghiamo i nostri principi? Un ordinamento che s'ispira a libertà e democrazia rinnega se stesso se vieta a taluni di godere di quei diritti. Riguardo alla libertà, chi crede nel fascismo non è libero di proporre alla gente quell'ideologia, e riguardo alla democrazia, il demos non è libero di sceglierla.
  2. Proibiamo il fascismo; e gli altri? Se anche ammettessimo che in quanto liberali e democratici non dobbiamo ammettere le organizzazioni che professano l'abbattimento di quei principi (non si tratta da amico il nostro nemico), avremmo dovuto applicare quel principio ad ogni partito che si proponeva ciò, a cominciare dal partito comunista, come avvenne in Germania e in Svizzera.
  3. Chi dà patenti di democraticità? Se anche ammettessimo che non si può fare di tutt'un erba un fascio, ma che si dovrebbe valutare caso per caso, e che il PCI poteva dimostrare -per storia e per altre circostanze- di essere un partito democratico a tutti gli effetti, chi potrebbe stabilire l'ammissibilità o meno di un'organizzazione? Simili decisioni non potrebbero di certo essere demandate ai tribunali.
  4. Vieti il PNF e arriva l'MSI. Basta appunto cambiare nome e ragione sociale per eludere la norma. Ricordiamo che l'MSI s'ispirava al Manifesto del Congresso di Verona del PFR. Vogliamo credere che il forzato rebranding del partito fascista ne abbia disinnescato il potenziale eversivo?
  5. La storia non si ripete. Se lo scopo della norma è quello di prevenire lo sviluppo di un ipotetico partito che ci imporrebbe un regime autoritario, esso, qualora avvenisse, non si chiamerebbe fascismo, ma avrebbe nomi e forme diverse: parafrasando Marx, la costituzione ci ripara oggi solo dal ripetersi della storia in farsa. A riprova di ciò basti il fatto che quella norma (e quella sull'apologia di fascismo) hanno perseguito solo gruppuscoli insignificanti che di certo non hanno mai posto (e né porranno) nessuna minaccia alla democrazia.
  6. Come si difende la democrazia? Risposta: praticandola. In altre parole, è da ingenui pensare che la nostra democrazia e la nostra libertà restino ciò che sono perché in un pezzo di carta c'è scritto che è vietato tornare al fascismo. Se fosse così semplice, come osservò a suo tempo il deputato radicale Mauro Mellini, oltre a scrivere in un pezzo di carta che la Loggia P2 è sciolta si potrebbe scrivere che pure la mafia lo è...
  7. Che cosa si vieta? Se un domani ci sarà un colpo di stato fascista, esso ci sarà anche se la costituzione lo vieta. Viceversa la norma vieta a chi vuole fare politica fascista alla luce del sole e con mezzi democratici. Inoltre ciò che si vuole prevenire (colpi di stato, svolte autoritarie, violenze delle squadracce, limitazioni alla libertà) è già proibito da altre norme, e chi tentasse atti concreti di sovversione verrebbe perseguito.
  8. Perché abbiamo quella norma? Questo è un punto importante da chiarire, perché oltre alle considerazioni di cui sopra, la vera motivazione storica per cui quella norma è presente in Costituzione è un'altra. È che ciò ci fu imposto dagli Americani, prima all'art. 30 dell'Armistizio di Cassibile:
    Tutte le organizzazioni fasciste, compresi tutti i rami della milizia fascista (MVSN), la polizia segreta (OVRA) e le organizzazioni della Gioventù Fascista saranno, se questo non sia già stato fatto, sciolte in conformità alle dispozioni del Comandante Supremo delle Forze Alleate. Il Governo italiano si conformerà a tutte le ulteriori direttive che le Nazioni Unite potranno dare per l'abolizione delle istituzioni fasciste, il licenziamento ed internamento del personale fascista, il controllo dei fondi fascisti, la soppressione della ideologia e dell'insegnamento fascista.
    e poi all'art. 17 del successivo trattato di pace:
    L'Italia, la quale, in conformità dell'articolo 30 della Convenzione di Armistizio, ha preso misure per sciogliere le organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili organizzazioni, siano esse politiche, militari o militarizzate, che abbiano per oggetto di privare il popolo dei suoi diritti democratici.
  9. Il fascismo fu un male assoluto tale da giustificarne oggi un espresso divieto? Suvvia, siamo onesti con noi stessi e guardiamo in faccia la realtà. Il fascismo arrivò perché il paese aveva preso una china opposta altrettanto -se non di più- pericolosa. E il popolo italiano lo accettò quale male minore. Quindi se noi vietiamo ciò che ipoteticamente il popolo potrebbe tornare a volere, noi vietiamo al popolo di poter volere qualcosa. Si dirà: a quello servono le costituzioni rigide. Mi permetto di dissentire: la rigidità serve unicamente a prevenire che un cambio di maggioranza temporaneo possa approfittare dei propri mezzi parlamentari per conculcare i diritti costituzionali. O per farlo a dispetto del volere ultimo del popolo, che può rifiutare le modifiche costituzionali per via referendaria. Ma se detta maggioranza viene confermata più volte dal popolo si pone un'evidente contraddizione, giacché la costituzione non sarebbe più democratica. A quel punto si veda il punto 6.
    Può darsi che in un futuro (chi può dirlo?) l'Italia evolva verso una forma di neo-autoritarismo (secondo taluni il berlusconismo lo è). Pensare di difendere lo status quo mediante un pezzo di carta è illusorio.
In conclusione la XII disposizione (non) transitoria e finale della Costituzione è inutile oltre che ingiusta. Volerla abolire oggi di per sé è tutt'altro che scandaloso. In pratica però ogni proposta in tal senso viene bollata essa stessa di fascismo, e tutto finisce in caciara.

lunedì 18 aprile 2011

Prevenire sarebbe meglio che curare

Qui si sta dalla parte della Thyssen. E non solo perché trasformare una disgrazia, colpevole ed evitabile, in un omicidio volontario è un'enormità, ma anche perché se i dirigenti Thyssen sono responsabili, anche lo stato che non ha fatto i dovuti controlli ha la sua parte della colpa.

Come osserva Chicago Blog, dolo eventuale che sia o meno, il problema è che la politica dello stato in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro è di fatto basata sulla repressione e non sulla prevenzione.

È un po' come la politica della prevenzione degli incidenti stradali: per farla occorre fare controlli capillari del tasso di alcool, occorre costruire strade più sicure, fare campagne educative. Invece lo stato si limita ad alzare le pene o a rendere la vita dei neo-patentati più dura.

Il che rende la vita della pubblica amministrazione più facile. Ma che porta a casi come quello in oggetto, unico in Europa dove degli imprenditori vengono trattati come dei criminali.

venerdì 15 aprile 2011

Quando il governo va sotto

Nel Coglionistan i giornali sono soliti mettere in evidenza, e se del caso rallegrarsi, quando il governo va in minoranza in certe votazioni in Parlamento. Distinguiamo: può capitare che una parte della maggioranza voti con l'opposizione, e allora trattasi di un fatto più che legittimo, diciamo fisiologico, in una democrazia parlamentare. Ma capita che l'esito a sorpresa sia frutto di ostruzionismo, imboscate, assenze, errori e disfunzioni varie. Nel qual caso non si capisce proprio di che le opposizioni di turno e i loro scherani si rallegrino: trattasi solo di incidenti di percorso che tutt'al più fanno perdere tempo, dato che la maggioranza può in ogni momento votare di nuovo e ribaltare il risultato.

In democrazia vi sono la maggioranza e la minoranza. Esse sono tali per volere del popolo, e solo il popolo può invertire i fattori. Naturalmente ciò non significa che i parlamentari abbiano un vincolo di mandato, ma significa che chi si propone di essere maggioranza a legislatura in corso ha il dovere democratico (ripeto: democratico, non legale) di usare questi incidenti di percorso per mostrare al paese che il governo non ha più la maggioranza in parlamento e quindi invocare elezioni anticipate al fine di avere loro un mandato popolare.

La nostra sinistra ha invece la brutta abitudine di usare questi incidenti per dare, usando il loro lessico, una "spallata" al governo. In altre parole l'agguato in parlamento vale quanto il colpo di piazza, le occupazioni di edifici pubblici, le inchieste giudiziarie, gli appelli al presidente della repubblica affinché non controfirmi leggi o decreti, mozioni del CSM o sentenze della Corte Costituzionale. Infatti tutte queste azioni hanno una cosa in comune: si pongono contro il volere del popolo e mirano a impedire alla maggioranza di governare.

Andando poi nello specifico, quando il governo va sotto in parlamento a causa di "incidenti di percorso", ciò perlopiù avviene perché la maggioranza è al governo, mentre l'opposizione non ha null'altro da fare che stare in parlamento. Infatti una parte della maggioranza 50-60 persone sono membri del governo (ministri o sottosegretari), mentre gli altri "curano" i rapporti con le constituencies (elettori, lobbies varie...).

A fronte di ciò l'attività parlamentare è fatta di votazioni spesso inutili su improbabili lunghe liste di emendamenti presentati dalle opposizioni, su mozioni non vincolanti, su approvazioni di processi verbali, su continue verifiche del numero legale e quant'altro. Se consideriamo che il premio di maggioranza alla Camera è di soli 28 seggi e (in questa legislatura) di 16 al senato, è statisticamente probabile che prima o poi capiti che i rapporti di forza in aula si ribaltino.

In Gran Bretagna la cosa viene gestita col fair play: quando un certo numero di deputati della maggioranza è assente, l'opposizione ne fa uscire altrettanti. Auspicare ciò significherebbe avere un sistema politico in cui entrambi gli schieramenti ritengano l'altro un avversario da battere secondo le regole della democrazia (scritte o meno che siano), comportandosi lealmente, e non un nemico da abbattere ad ogni costo, secondo la logica del "tanto peggio - tanto meglio".

lunedì 4 aprile 2011

Il sangue dei vinti

Il libro di Giampaolo Pansa "Il sangue dei vinti" del 2003 è ancora oggetto di polemica. Lo è stato tempo fa in questo blog d'opinione, e recentemente mi è capitato di leggerne qui.

Non saprei dire nel caso specifico del primo blog che ho citato, ma la mia impressione è che spesso chi ne dibatte, cosciente o meno di ciò, parta dai propri assunti ideologici, da tradizioni politiche o financo da esperienze, dolorose o meno, di famiglia. Ne consegue che è difficile forzarsi a dare un giudizio obiettivo, e che -ancora peggio- in molti si sono fatti un'idea del libro senza neppure averlo letto, ma basandosi sulle innumerevoli recensioni e giudizi (tutti di parte, vedi sopra) che si trovano in rete.

Fatti veri o falsi?

Io il libro l'ho letto. È una divulgazione senza pretese di alta letteratura o di accademia di fatti sino a quel momento sostanzialmente ignorati dalla storiografia. Ed è lo stesso Pansa a premetterlo nelle pagine iniziali del libro. Dunque chi l'ha letto non dovrebbe obiettare né l'assenza della citazione delle fonti a piè di pagina né altre cose che non ne fanno un libro di storia. Ad ogni modo, comunque la si pensi, lo stesso Pansa, allorché fu criticato per quei motivi da vari docenti universitari di materie storiche, li sfidò pubblicamente, loro e i loro assistenti, a trovarci delle inesattezze. La sfida non venne raccolta, pertanto si può affermare che nessuno sinora ha potuto sbugiardarlo.

Una rappresentazione distorta del contesto?

Viene poi detto che Pansa faccia iniziare la storia il 25 aprile 1945, ignorando fatti precedenti di opposta e analoga, se non peggiore, crudeltà. E che la conseguenza di ciò sia una sostanziale falsificazione della storia. Ma anche qui osservo che il libro di Pansa all'inizio di ogni capitolo racconta di quali colpe le vittime delle vendette si fossero macchiate. E oltre a ciò Pansa racconta cosa era successo in precedenza nelle zone in cui avvennero quei fatti. E che il fascismo fosse un regime è cosa nota. Così come è cosa nota la guerra e gli orrori che aveva portato.

Ogni avvenimento storico è il seguito di un avvenimento precedente che ne è il presupposto necessario. Pertanto obiettare che il libro di Pansa sarebbe scorretto perché inizia a narrare i fatti del 1945 omettendo quelli degli anni precedenti è un po' come dire che un libro sull'olocausto sarebbe scorretto se non trattasse anche dei fatti storici che portarono all'antisemitismo. Così non si dovrebbe parlare delle Fosse Ardeatine senza includere Via Rasella, né di Via Rasella senza parlare dell'occupazione tedesca, la quale non potrebbe essere trattata senza menzionare l'otto settembre, e così via fino alla notte dei tempi.

Al che qualcuno potrebbe obiettare che l'antisemitismo non può essere una giustificazione dell'olocausto. Il che è verissimo, così come è vero che il fascismo non giustifica le successive vendette. Oppure le giustifica? Allora occorre che chi brandisce l'argomento della necessità di contestualizzare quei fatti abbia il coraggio di ammettere esplicitamente ciò che esso implicitamente postula, cioè che le violenze fasciste, la guerra e l'occupazione tedesca avrebbero giustificato le successive vendette partigiane.

E l'idea per cui gli eccidi debbano essere contestualizzati va in crisi quando si nota che a compierli furono solo i partigiani rossi, e non quelli bianchi (i cattolici), verdi (Giustizia e Libertà) o azzurri (i liberali). E che anzi i partigiani rossi uccisero partigiani di altri colori (e non viceversa).

Ma allora occorre scegliere: o quei fatti sono avvenuti e possono essere narrati senza che Pansa si becchi l'epiteto di revisionista, dato che il contesto precedente li giustificherebbe, oppure quelle di Pansa sono ricostruzioni parziali, incomplete, da dilettante, senza fonti chiare, e il suo libro falsificherebbe sostanzialmente la storia. Ma come ho detto, sinora nessuno storico è riuscito a smontare il libro.

La vera questione dei libri di Pansa che agita il dibattito non è il loro contenuto, ma il fatto che i libri hanno avuto un grande successo di vendite e che l'autore ha un curriculum "rispettabile" (un giornalista che ha scritto a lungo su Repubblica e L'Espresso), che impedisce che il giudizio si limiti al dito e non alla luna. Se a scriverli fosse stato un reduce della Repubblica di Salò (come in passato avvenne) quasi nessuno se li sarebbe filati. E chi lo avesse fatto avrebbe indicato il dito, dicendo che era il dito di un fascista.

Detto questo, io ne consiglio la lettura. Perché i fatti narrati sono realmente avvenuti e non devono essere censurati, neanche per convenzione tacita. Altrimenti se la cultura della resistenza si deve basare sullo zittire gli avversari, sul negare i fatti imbarazzanti, sul fare dei partigiani un'agiografia ipocrita, ci troviamo davanti a un male simile a quello che la resistenza stessa ha combattuto. E purtroppo quello è il problema di fondo che Pansa ha scoperchiato.

venerdì 1 aprile 2011

Così non si fa

Questa è un'ingerenza. Leggo su Repubblica che Napolitano "chiama al Quirinale tutti i capigruppo e senza giri di parole gli spiega che così non si può andare avanti." L'articolo continua dicendo che Napolitano avrebbe convocato i capigruppo parlamentari "rispettando il suo ruolo istituzionale. Non vuole forzature. Tant'è che prima di tutto avverte il suo interlocutore diretto a Palazzo Chigi: Gianni Letta."

Certi articoli, certi comportamenti, così come certi non comportamenti da parte dei capigruppo, che accettano quest'atto d'imperio del titolare ultimo del potere esecutivo, ancorché solo formale, senza mandare pubblicamente Napolitano a quel paese, magari ricordandogli che lui può convocare il presidente del consiglio, ma non può certo permettersi di convocare membri del parlamento, fanno cascare le braccia.

In soldoni il nostro sistema istituzionale prevedeva il Re quale titolare del potere statale. Successivamente fu istituito il Parlamento quale organo con cui il Re doveva fare i conti (leggasi: ottenerne la fiducia ed eseguire le leggi da questo deliberate) per poter governare. Oggi la figura del Re è stata sostituita da quella del Presidente della Repubblica, che altro non è che un monarca repubblicano.

Se il Presidente della Repubblica convoca i capigruppo, sempre detto in soldoni, avviene che il capo supremo del potere esecutivo convoca i capi del potere legislativo. Non a caso la Costituzione stabilisce che Presidente e Parlamento possono interloquire mediante lo strumento del "messaggio alle camere".

Invece leggo che Letta "viene informato della intenzione di svolgere una "ricognizione diretta". Una procedura "istituzionale" ma inevitabile". No, la procedura non è "istituzionale e né è inevitabile. Di evitabile c'è solo il comportamento di Napolitano.

Oh, intendiamoci, invitare Cicchitto e colleghi a prendere un tè al Quirinale non è reato. Ma di strappo in strappo si finisce per rendere i confini istituzionali molto grigi, quando invece le cose devono essere bianche o nere. Si creano precedenti che un giorno potrebbero essere citati per sostenere cose inaccettabili.

Sarebbe stato opportuno che Cicchitto (e colleghi) avesse avuto i coglioni (nel senso degli attributi e non in quello dei cittadini del presente 'stan) di ricordare a Napolitano di stare al proprio posto, e di non interferire nella dialettica parlamentare, che sarà di certo parecchio, anche troppo, animata in questi giorni, ma che è DE-MO-CRA-ZIA.

giovedì 24 marzo 2011

Come vincere il referendum sul nucleare

Il governo teme che la gente, sull'onda dell'emotività causata dalle esplosioni nella centrale atomica di Fukushima, vada a votare in massa ai referendum, facendo scattare il quorum, e che voti "sì".

È di questi giorni il tentativo di metterci una pezza decretando una moratoria di un anno sul nucleare.

Ma ciò potrebbe non bastare: il referendum si terrà ugualmente, e i sondaggi dicono che la gente, fino ad ieri favorevole al nucleare, oggi è in maggioranza contraria, perché spaventata.

Che fare allora?

La soluzione ce la potrebbe offrire in questi giorni la cancelliera tedesca Merkel, che ha proposto l'embargo sul petrolio libico. Se passasse, l'Italia sarebbe il paese importatore che più ne verrebbe danneggiato, dato che metano e petrolio libico costituiscono una percentuale significativa dei nostri approvvigionamenti energetici. Oltre a ciò, l'embargo con ogni probabilità provocherebbe un aumento del prezzo del petrolio.

Quindi basta che l'Italia faccia in modo che la proposta passi, a livello europeo e a livello ONU. Non ci vorrà molto: basterà non opporsi più di tanto. A quel punto l'embargo sarà cogente anche per noi.

E qui viene il bello: il governo, al fine di limitare i danni all'economia nazionale, dovrebbe fare in modo che i conseguenti aumenti sulle bollette elettriche e del gas nonché l'aumento della benzina vengano contenuti. Come? Semplice: razionandone il consumo. Ovvero, programmando dei black out elettrici, riducendo per decreto a 17 gradi la temperatura nelle case e negli uffici riscaldati a gas, e limitando la quantità di benzina destinata al consumo privato (per esempio come negli anni 70, quando gli automobilisti erano obbligati a lunghe code ai distributori).

Davanti a tutto ciò il governo dovrà dire pubblicamente che la colpa è di chi ha spinto per la guerra e l'embargo alla Libia e del fatto che in Italia non abbiamo l'energia nucleare. Che se l'avessimo non ci sarebbero stati i razionamenti e i black out. Come dargli torto?

Qualora venisse fatto ciò i cittadini del Coglionistan il giorno del referendum soppeserebbero le loro paure giapponesi contro la concreta inconvenienza dei black out, del freddo in casa e delle code che hanno dovuto fare ai distributori. Che dite, il nucleare vincerebbe coll'80% o col 90%?

domenica 13 marzo 2011

La riforma della giustizia: così cambierà la Costituzione?

A chi giudica la proposta di riforma della Costituzione sulla base di idee preconcette (dell’uno e dell’altro schieramento), quest’articolo offre la possibilità di leggerne direttamente il testo così come cambierebbe se la riforma fosse approvata e di giudicare con la propria testa. Le parti tracciate sono ovviamente quelle abolite e quelle in rosso le nuove norme. Buona lettura.



Art. 87
Il Presidente della Repubblica (…) Presiede il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente.

Parte seconda
Ordinamento della Repubblica

TITOLO IV
LA MAGISTRATURA
LA GIUSTIZIA

Sezione I
Ordinamento giurisdizionale
Gli organi

Art. 101La giustizia è amministrata in nome del popolo.I giudici sono soggetti soltanto alla legge. I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge.

Art. 102
La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario. La giurisdizione è esercitata da giudici ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.
Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.
La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia.

Art. 103
Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.
La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.

Art. 104
La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.
Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica.
Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione.
Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.
Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento.
I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili.
Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale.
I magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri.
La legge assicura la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri.
L’ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza.

Art. 104-bis
Il Consiglio superiore della magistratura giudicante è presieduto dal Presidente della Repubblica.
Ne fa parte di diritto il primo presidente della Corte di cassazione.
Gli altri componenti sono eletti per metà da tutti i giudici ordinari tra gli appartenenti alla medesima categoria previo sorteggio degli eleggibili e per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.
Il Consiglio elegge un vicepresidente tra i componenti designati dal Parlamento.
I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono rieleggibili.
Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale, provinciale o comunale.

Art. 104-ter
Il Consiglio superiore della magistratura requirente è presieduto dal Presidente della Repubblica.
Ne fa parte di diritto il procuratore generale della Corte di cassazione.
Gli altri componenti sono eletti per metà da tutti i pubblici ministeri tra gli appartenenti alla medesima categoria previo sorteggio degli eleggibili e per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.
Il Consiglio elegge un vicepresidente tra i componenti designati dal Parlamento.
I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono rieleggibili.
Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale, provinciale o comunale.

Art. 105
Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati. Spettano al Consiglio superiore della magistratura giudicante e al Consiglio superiore della magistratura requirente, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti e le promozioni nei riguardi dei giudici ordinari e dei pubblici ministeri.
I Consigli superiori non possono adottare atti di indirizzo politico, né esercitare funzioni diverse da quelle previste nella Costituzione.

Art. 105-bis
I provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati spettano alla Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente.
La Corte di disciplina si compone di una sezione per i giudici e di una sezione per i pubblici ministeri.
I componenti di ciascuna sezione sono eletti per metà dal Parlamento in seduta comune e per metà rispettivamente da tutti i giudici e i pubblici ministeri.
I componenti eletti dal Parlamento sono scelti tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.
I componenti eletti dai giudici e dai pubblici ministeri sono scelti, previo sorteggio degli eleggibili, tra gli appartenenti alle rispettive  categorie.
La Corte di disciplina elegge un presidente tra i componenti designati dal Parlamento e ciascuna sezione elegge un vicepresidente tra i componenti designati dal Parlamento.
I membri della Corte di disciplina durano in carica quattro anni e non sono rieleggibili.
Non possono, finché sono in carica, essere iscritti agli albi professionali, né ricoprire uffici pubblici.
La legge assicura l’autonomia e l’indipendenza della Corte di disciplina ed il principio del giusto processo nello svolgimento della sua attività.
Contro i provvedimenti adottati dalla Corte di disciplina è ammesso ricorso in Cassazione per motivi di legittimità.

Art. 106
Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso.
La legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari
per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.
Su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all'ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d'esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.

Art. 107
I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione
del Consiglio superiore della magistratura dei Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso. In caso di eccezionali esigenze, individuate dalla legge, attinenti all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia i Consigli Superiori possono destinare i magistrati ad altre sedi.
Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l'azione disciplinare.
I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.
Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario.

Art. 108
Le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge.
La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia.

Art. 109
L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria. Il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge.

Art. 110
Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Ferme le competenze dei Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente, spettano al Ministro della giustizia la funzione ispettiva, l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
Il Ministro della giustizia riferisce annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, sull’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine.
 


Sezione II
Norme sulla giurisdizione
La giurisdizione

Art. 111
La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore.
La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.
Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.
Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge.
Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.
Contro le sentenze di condanna è sempre ammesso l’appello, salvo che la legge disponga diversamente in relazione alla natura del reato, delle pene e della decisione. Le sentenze di proscioglimento sono appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge.Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.

Art. 112
Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale. L’ufficio del pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge.

Art. 113
Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.
Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.
La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa.

Sezione II-bis
Responsabilità dei magistrati

Art. 113-bis
I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato.
La legge espressamente disciplina la responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale.
La responsabilità civile dei magistrati si estende allo Stato.