giovedì 9 dicembre 2010

La più ampia maggioranza mai vista nella storia repubblicana

Da tempo circola sulla stampa (e sui blog che la rilanciano) una leggenda metropolitana: quella che lo schieramento di centro-destra uscito dalle urne godrebbe della più ampia maggioranza in parlamento che ci sia mai stata nella storia della repubblica.

A titolo d'esempio, questa leggenda è stata ultimamente rilanciata da Marco Travaglio ("oggi, se cade il governo, è colpa di B. che non ha saputo governare con la più ampia maggioranza mai vista nella storia repubblicana") e da Matteo Renzi ("questo era il governo con la maggioranza più ampia della storia della repubblica italiana, perché dopo le elezioni del 2008 c'erano cento parlamentari di differenza; che cosa sia successo è un problema loro").

100 parlamentari di margine? È una balla
Renzi, nella sua dichiarazione al TG7 parla di una differenza di cento parlamentari. Evidentemente fa la somma di deputati e senatori della maggioranza, e li confronta con il numero degli eletti nelle liste del PD e dell'Italia dei Valori. Ragionamento doppiamente scorretto. In primo luogo perché sommare deputati e senatori non vuol dire nulla, dato che Camera e Senato votano separatamente, e quindi occorre vedere quale sia l'effettiva maggioranza in ciascuno dei due rami del parlamento. In secondo luogo perché non tiene conto che in parlamento siedono altri 46 parlamentari, quasi tutti dell'UDC, che sono anch'essi all'opposizione a pieno titolo.

La realtà è che nella legislatura attuale Berlusconi, all'indomani delle elezioni poteva contare su 518 parlamentari: 344 deputati e 174 senatori. Quindi ad ogni votazione aveva una maggioranza rispettivamente di soli 28 seggi alla Camera e 16 al Senato. Non a caso basta che alla Camera una trentina di finiani votino con l'opposizione per mandare sotto il governo.

Per riassumere e chiudere la penosa bugia basti la considerazione che alla Camera il centro-destra ha ottenuto, in virtù del premio di maggioranza, lo stesso numero di seggi che aveva ottenuto l'Unione nel 2006. Al Senato viceversa i 16 seggi di scarto sono un margine più ampio dei dei 2 (più i senatori a vita) su cui poteva contare Prodi.

Ma almeno è la più ampia nella storia della repubblica?
Nemmeno quest'affermazione è vera. Ce ne sono state di più ampie in passato. Questa volta, per semplificare, sommiamo pure deputati e senatori.
Come abbiamo visto nel 2008 la loro somma fa 518. Nel 2001 fu di 544. Dal 1979 al 1992 il pentapartito ebbe nelle quattro legislature in cui regnò rispettivamente 556, 548, 554 e 531 parlamentari. Nel 1976 quei cinque partiti ebbero 534 parlamentari. Se ad essi sommiamo i 343 parlamentari del PCI con cui fecero la maggioranza di solidarietà nazionale arriviamo a 877. Che fu, per riciclare le parole del catto-comunista Renzi, quella sì la maggioranza più ampia della storia della repubblica italiana. 

Conclusioni
La verità è che i sinistri hanno messo in giro questa balla per due motivi. Il primo è che siccome nelle legislature in cui hanno governato disponevano di maggioranze inferiori (ma pur sempre di maggioranze, ancorché quella al Senato nel biennio 2006-2008 fosse risicata), cercano di scaricare sull'esiguità dei numeri la responsabilità di ciò che essi stessi implicitamente riconoscono di non essere riusciti a fare. Il secondo è che così dicendo creano un falso sillogismo per il quale "ampia maggioranza = possibilità di approvare qualsiasi legge = possibilità di raggiungere qualsiasi obiettivo = assenza di scuse in caso di fallimento". Ovviamente il ragionamento è fallace, ma per capirlo i sinistri dovrebbero capire l'abc della democrazia rappresentativa.

giovedì 2 dicembre 2010

Lettera aperta a Benedetto Della Vedova

Se potessi inviare un commento a quanto Benedetto Della Vedova -deputato che stimo- ha scritto sul suo blog, dove i commenti sono attualmente disabilitati, gli scriverei quanto segue.

Egli ha detto che:
  1. chi il 14 dicembre voterà la fiducia al governo Berlusconi in realtà innescherà il processo che porterà alle elezioni anticipate;

  2. viceversa chi voterà la sfiducia, pur aprendo la crisi di governo, determinerà un processo politico che porterà a un nuovo governo, e quindi alla prosecuzione della legislatura, "a partire dalla maggioranza di centro destra" (qualsiasi cosa ciò significhi).
Entrambe le affermazioni sono degne di nota.

La prima lo è perché conferma quanto da me sostenuto: cioè che il potere di diritto di sciogliere il parlamento è del presidente della repubblica, ma quello di fatto è -e deve essere- del capo del governo purché abbia la fiducia delle camere.

E di certo non è un potere del parlamento. Infatti, secondo chi sostiene il dovere del presidente della repubblica di verificare l'esistenza di una maggioranza parlamentare e -se vi è- di adeguarsi al suo volere, queste votando la fiducia impedirebbero a Napolitano di accordare poi a Berlusconi le elezioni anticipate.

Quindi, qualora il governo ottenga la fiducia, mi attendo che Benedetto Della Vedova non contesti la richiesta di Berlusconi di andare ad elezioni anticipate ed il suo eventuale accoglimento da parte di Napolitano, sulla base che ci sarebbe in parlamento una maggioranza alternativa.

Passiamo alla seconda affermazione. Se Della Vedova è sincero nel chiedere un nuovo governo con maggioranza di centro destra, esso rifletterà di nuovo gli attuali rapporti di forza: sarà sostenuto da 235 deputati del PDL, 59 della Lega, 36 di FLI, nonché da qualcuno oggi iscritto al gruppo misto. Numeri analoghi al Senato. Per cui i finiani non otterrebbero niente di più rispetto ad ora.

Forse però Della Vedova prefigura una nuova maggioranza di centro destra che parta dall'attuale e che arrivi non si sa dove. Si può immaginare che intenda includervi i neo alleati terzopolisti: l'UDC e magari l'API di Rutelli. Ma anche in questo caso, anche qualora nascesse, essa non muterebbe gli attuali rapporti di forza. Anzi, con l'ingresso dei centristi FLI perderebbe il suo esclusivo potere di ricatto sul governo.

Per farla breve: senza Berlusconi, fintanto che potrà contare su almeno 40 deputati o 20 senatori a lui fedeli, non nasce nessun nuovo governo di centro destra. E allora perché fare cadere l'attuale se si punta a un governo fotocopia e a reiterare l'impegno sui cinque punti?

Vi è anche la possibilità che l'espressione "a partire dalla maggioranza di centro destra" significhi qualcos'altro. Cioè una maggioranza con parte del centro destra (FLI e MPA) ma senza Berlusconi. Detto in parole semplici: il ribaltone.

Quale che sia, è evidente che Della Vedova sta partecipando a delle manovre di palazzo poco trasparenti, con giochi di parole in politichese e sulla testa degli elettori.

Che la Gabina elettorale gli sia lieve.

venerdì 26 novembre 2010

Fischi per fiaschi

A che serve un'opposizione? Risposta: oltre a rendere un paese più democratico, serve a stimolare la maggioranza a fare meglio, mediante iniziative, controproposte, emendamenti, critiche (nel merito), etc. L'idea è che chi sta all'opposizione si sforzi di presentarsi come migliore, come un passo avanti rispetto a chi governa.
Nel Coglionistan invece l'opposizione viene fatta denigrando la maggioranza. Nella speranza che, denigrala oggi e denigrala domani, il suo consenso cali, e chissà che poi sarà l'opposizione a prenderne il posto.

Un paio di esempi d'attualità

Il governo annuncia il piano per il sud. Berlusconi chiosa: «Il governo ha praticamente in poco tempo realizzato tutto quanto garantito di fronte al Parlamento». Ovvero: noi governo ci eravamo impegnati a studiare, redigere e presentare al Parlamento dei disegni di legge, ora lo abbiamo fatto.
Risposta di Bersani: «Se Berlusconi ha fatto i cinque punti può andarsene a casa contento e tranquillo».
Che c'entra? E perché in seguito alla presentazione dei disegni di legge, che sono il primo passo ufficiale di una politica (a cui deve seguire l'approvazione da parte del parlamento, l'eventuale attuazione da parte del governo e degli enti locali, l'implementazione e la verifica dei risultati raggiunti) il governo dovrebbe andare a casa, suppostamente per farsi giudicare dagli elettori prima che detto piano venga concretamente messo in atto e possa dunque essere giudicato?

Il ministro Gelmini aveva criticato Bersani, poiché questi era salito sul tetto di un edificio occupato dagli studenti che protestano contro la riforma dell'università. La Gelmini ha detto: «Non si capisce se in veste di segretario precario del Pd, piuttosto che di studente ripetente», laddove ripetente è un riferimento a quegli studenti universitari che passano il loro tempo più a fare politica (per esempio salendo sui tetti o occupando le facoltà) piuttosto che studiando e passando gli esami.
Risposta di Bersani: «Pubblicherò su Internet tutti i voti di tutti i miei esami del mio corso di laurea. Mi aspetto che il ministro faccia altrettanto, completo di "giro turistico" a Reggio Calabria».
Bravo. Ma che c'entra coll'assecondare gli studenti che scambiano l'università per un luogo di lotta politica invece che un luogo dove si fa un corso di studi?

Rimboccarsi le maniche o attendere incrociando le braccia?

La conseguenza di tutto ciò è che non si genera un circolo virtuoso in cui ciascuna parte cerca di fare meglio dell'altra, ma piiuttosto un circolo vizioso nel quale ciascuna parte cerca di dimostrare che l'altra è peggiore. È di tutta evidenza che così facendo che sta all'opposizione, invece di prepararsi a governare meglio di ch ilo fa oggi, si limita ad attendere che chi governa abbia logorato la propria immagine per prenderne il posto. Ma il risultato sarà che poi le verrà riservato il medesimo trattamento, e alla fin della fiera è il paese a farne le spese.

giovedì 25 novembre 2010

Dove trovare il Panem

  1. Come già avevo scritto in precedenza,le opposizioni stanno trattando con i finiani per un ribaltone il cui scopo sarà di tornare alla proporzionale.
  2. Dato però che un governo non può campare di soli circenses, qualora il ribaltone veda davvero la luce, si porrà il problema di dove trovare il panem. Vista la composizione dell'ipotetica maggioranza e del blocco sociale che la dovrebbe sostenere, e visto il difficile momento economico e finanziario, il mio timore è che veda la luce quanto già proposto dalla Serracchiani, da Fini, nonché quanto già attuato negli anni ottanta dai padri politici di Casini (i governi di pentapartito che nel 1986 introdussero l'imposta del 6.25% e che nel 1987 l'alzarono al 12.5%): l'aumento dell'imposta sui redditi da capitale.
Adesso mettete assieme i punti 1 e 2, e guardare il video dell'ultima puntata di Ballarò andando direttamente a 1:59:00. È il momento in cui Rosy Bindi in un solo minuto dice:
  1. che il PD è disposto ad andare alle elezioni sia con un'alleanza di sinistra che con una estesa al centro (traduzione dal Politichese all'Italiano: sono disposti sia a tenersi l'attuale legge elettorale, sia a votare il ritorno alla porporzionale),
  2. che il PD scenderà presto in piazza per pubblicizzare la proposta di aumento dell'imposta sui redditi da capitale.

giovedì 4 novembre 2010

Prove tecniche di ribaltone: ecco la nuova legge elettorale

Allora, dopo che per mesi chi voleva cambiare la legge elettorale sapeva cosa non voleva ma non cosa voleva, pare che i futuri potenziali ribaltonisti stiano cercando di mettersi d'accordo sul tema. Vediamo, secondo la ricostruzione di Federico Geremicca su La Stampa, di cosa si tratterebbe:
Cominciamo dalla Camera. La quota più consistente di seggi (si limano i dettagli: diciamo tra il 55 e il 60% del totale) verrebbe assegnata in collegi uninominali col sistema del doppio turno. Verrebbe eletto subito alla Camera chi ottenesse la metà più uno dei voti validi espressi.
Al secondo turno, invece, ci arriverebbero tutti i candidati che al primo avessero superato il 10 per cento dei consensi: è in questa fase che diverrebbe obbligatoria l’indicazione del candidato-premier per il quale si è in campo. Una seconda quota di seggi (tra il 35 e il 40% del totale) verrebbe assegnata con metodo proporzionale nelle circoscrizioni elettorali ai partiti che avessero superato la soglia di sbarramento, fissata al 5 per cento.

Il restante (cioè il 5% del totale dei seggi) verrebbe assegnato, sempre nelle circoscrizioni elettorali, come diritto di tribuna, ai partiti rimasti al di sotto della soglia del 5 per cento dei voti. Sospesa, per il momento, la scelta per quel che riguarda il sistema da adottare per il Senato. L’incertezza è legata a quanto del pacchetto di riforme possibili contenute nella cosiddetta bozza Violante (due risoluzioni che vi fanno riferimento sono state già votate quasi all’unanimità al Senato) riuscirà a vedere la luce.
Se, per esempio, si raggiungesse un’intesa anche sulla fine del bicameralismo perfetto, attribuendo al Senato la funzione di Senato delle Regioni (non titolato, dunque, a votare la fiducia al governo) l’assemblea di palazzo Madama verrebbe eletta con sistema interamente proporzionale.
Vediamo di fare un po' di ordine, ed esaminiamo le novità rilevanti punto per punto:

Fine del bipolarismo

Si tratta dunque di un ritorno alla proporzionale, e del conseguente abbandono del bipolarismo. Ciò in barba alla lunga battaglia referendaria di Segni e Pannella, proseguita poi da Guzzetta. Infatti se il 40-45% dei seggi è attribuita in maniera proporzionale, ciò rende inefficace la parte maggioritaria. Nessuno schieramento annunciato prima delle elezioni potrà contare sui numeri per governare, ma dovrà ulteriormente trattare in parlamento.

Doppio turno

Il costo delle elezioni raddoppia, così come raddoppia lo sfinimento degli elettori, chiamati a recarsi ai seggi due volte invece di una. Aumentano i costi delle campagne elettorali, e conseguentemente i finanziamenti pubblici ai partiti.

Mercato delle vacche

Se nella parte maggioritaria passano al secondo turno tutti quelli che prendono almeno il 10% dei voti, è facilmente prevedibile che in determinati casi inizieranno delle trattative fra i partiti per accordarsi su varie desistenze.

Voto di preferenza

L'articolo citato menziona espressamente "il ritorno delle preferenze". Che vigerebbe nel 40-45% eletto con il sistema proporzionale. Anche qui verrebbe cancellata la battaglia referendaria, il cui scopo era appunto quello di impedire la lotta fra candidati dello stesso partito, la conseguente esplosione delle spese di propaganda e il controllo dell'elettorato mediante il voto di scambio.

Sbarramento al 5% e diritto di tribuna

Se da un lato viene innalzata la soglia minima dei voti per accedere alla ripartizione dei seggi attribuiti nella parte proporzionale, e ciò potrebbe avere un qualche effetto positivo per consolidare le maggioranze e le coalizioni, dall'altro la quota proporzionale viene scomposta in due parti, con una trentina di seggi ripartiti fra le liste che non raggiungono il quorum. Questa disposizione, oltre a contraddire lo spirito di quella precedente, dato che favorirà il proliferare di liste aventi il solo scopo di eleggere un parlamentare, potrebbe avere la spiacevole conseguenza di dare a quei trenta parlamentari, non solo il diritto di tribuna, ma anche il potere di essere determinanti per la sopravvivenza o meno di un governo. Un po' come avviene oggi con i finiani, che sono appunto una trentina.
Non mi stupirei se spuntassero delle liste civetta aventi il solo scopo di prendere quei seggi.

Indicazione del premier

Quella rimarrebbe, nonostante sia già oggi una norma in contrasto (logico, non giuridico) con l'impianto della costituzione (oggi Berlusconi vi si appiglia per contrastare l'eventualità di un ribaltone). La riproporzionalizzazione del sistema la svuoterebbe di ogni ragione di essere. Infatti nessun partito potrebbe affermare di avere vinto le elezioni (*), ma avremmo sei-sette partiti (se non di più) con altrettanti candidati premier e la patata bollente nelle mani del presidente della repubblica.

(*) in realtà tutti affermerebbero di averle vinte per una ragione o un'altra. Ma sicuramente nessun avrebbe la maggioranza assoluta dei seggi, difficilmente ce l'avrebbe una coalizione formatasi prima del voto, e probabilmente la poltrona del premier sarebbe un argomento di trattativa come nella prima repubblica.

Riforma costituzionale: Senato tutto proporzionale

Come detto vi sarebbe anche "un’intesa anche sulla fine del bicameralismo perfetto". Al Senato verrebbero assegnate altre funzioni e, quel che è peggio, verrebbe eletto, come il parlamento europeo, con un sistema proporzionale puro, con tanto di voti di preferenza (vedi sopra). Un simile cambiamento, oltre ad essere di dubbia opportunità (per usare un eufemismo) visto che sarebbe una riforma costituzionale fatta da una maggioranza ribaltonista, rinforzerebbe ulteriormente il carattere proporzionalista del sistema politico.

Conclusioni

Questa riforma riporta l'orologio della politica alla prima repubblica, alle consultazioni, ai governi balneari, alle crisi di governo perenni. Chi la propugna è disposto a barattare l'affossamento dell'odiato Berlusconi (e nel caso di Fini la propria sopravvivenza politica) in cambio dell'abbattimento di quel poco che gli Italiani hanno ottenuto: la possibilità di scegliersi un governo nelle urne.

Per ciò che riguarda il ribaltone sappiamo ora che non si tratterebbe di un governo tecnico avente il solo scopo di permettere l'approvazione di una nuova legge elettorale, ma si aprirebbe addirittura una più lunga fase di riforme costituzionali. Il tutto ovviamente sopra la testa dei cittadini sudditi.

lunedì 1 novembre 2010

Elezioni subito

Dato che in questi giorni si discute di una possibile sfiducia a Berlusconi, sfiducia che potrebbe portare il paese a un ribaltone parlamentare, colgo l'occasione per un breve accenno al perché sarebbe auspicabile, e lo sarebbe già stato, andare invece ad elezioni anticipate prima ancora che vi sia la crisi di governo, senza che una simile ipotesi venga vista in modo traumatico, o addirittura eversivo, da metà del paese.

Nelle condizioni politiche in cui siamo, in un paese normale, il capo del governo si recherebbe dal capo dello stato chiedendogli lo scioglimento delle camere. Il capo dello stato dovrebbe prima ottemperare a quanto prescritto dall'art. 88 della Costituzione (sentire il parere dei presidenti delle camere), dopo di che provvederebbe allo scioglimento anticipato delle camere indicendo nuove elezioni.

Se ciò avvenisse, il nostro sistema politico ne guadagnerebbe in razionalità e democraticità: non tanto perché gli elettori abbiano messo la croce sul simbolo "Berlusconi presidente", che è semmai un impegno fra loro e il PDL a sostenerlo e nulla più di un'indicazione al capo dello stato su chi occorre nominare, ma perché chi meglio del capo del governo in carica (nominato dal capo dello stato e fiduciato dal parlamento eletto dal popolo) può giudicare su cosa sia più opportuno per il paese?

A Londra in qualsiasi momento il primo ministro può recarsi dalla regina ed ottenere le elezioni anticipate. Ciò è possibile non perché vigano formalmente regole diverse (il potere di scioglimento anche lì è prerogativa del capo dello stato, cioè la corona), ma perché appunto la regina non si sognerebbe di mettersi a fare politica sconfessando il suo primo ministro.

Da noi invece Napolitano si rifiuterebbe di fare un ragionamento del genere. Purtroppo la concezione assemblearista del nostro sistema politico è egemone in dottrina, e la bugia che il presidente della repubblica avrebbe sempre il dovere di cercare una maggioranza in parlamento, e di evitare se possibile lo sciogimento anticipato delle camere è considerata una verità rivelata.

Se invece Napolitano acconsentisse con le buone, cioè senza passare per inutili crisi di governo, consultazioni, mandati esplorativi, governi di transizione, etc., il nostro paese ne guadagnerebbe in credibilità. Si dice infatti che le elezioni sarebbero una iattura, che gli speculatori abbandonerebbero i nostri titoli di stato, che andremmo verso l'incertezza: balle.

Se Berlusconi ottenesse le elezioni da primo ministro in carica, in primo luogo non si dimetterebbe (e quindi il governo resterebbe nella pienezza dei suoi poteri), in secondo luogo anche il parlamento (ex art. 61 della Costituzione) conserverebbe tutti i suoi poteri fino all'insediamento delle nuove camere. La campagna elettorale durerebbe qualche settimana, e, se Berlusconi addirittura vincesse le elezioni, non occorrerebbero nemmeno la formazione di un nuovo governo e i relativi voti di fiducia, dato che rimarrebbe in carica l'attuale.

Viceversa ciò che potrebbe innervosire gli investitori è la percezione dell'incertezza. E l'incertezza è la conseguenza dell'instabilità, che sarebbe a sua volta la conseguenza della crisi di governo e della lunga fase di pre-campagna elettorale che ne seguirebbe.

Ovviamente nessuno può escludere che le elezioni diano un parlamento senza maggioranza, e di qui una fase di incertezza. Ma la ragione per cui occorrono oggi nuove elezioni è proprio che la maggioranza attuale, quella indicata dal popolo, non c'è più.

sabato 23 ottobre 2010

La mancata rivoluzione liberale

Molti ex-PDL o ex-Forza Italia o ex-centro-destra criticano oggi Berlusconi per non aver fatto la rivoluzione liberale promessa sin dal 1994 e mai attuata.

Il problema è che la maggior parte di coloro che se ne lamentano non sanno di cosa parlano, ovvero: sanno a grandi linee cosa vogliono ottenere, ma non sanno cosa sono disposti a pagare pur di ottenerlo. E lo stesso discorso lo si può purtroppo fare per la maggior parte degli elettori.

Facciamo un esempio concreto: è notizia di questi giorni la legge finanziaria con cui il governo britannico taglierà la spesa pubblica di 92 miliardi di euro, facendola passare in quattro anni dall'attuale 43.7% al 38.4% del PIL.

Fra le misure c'è l'innalzamento dell'età pensionabile a 66 anni per uomini e donne, il taglio di 20 miliardi di euro al welfare (si pensi che Bersani aveva chiesto a Tremonti lo stanziamento di 9 miliardi per attivare in Italia un buon sussidio di disoccupazione), 490 mila posti di lavoro nel settore pubblico (qualcosa tipo il 7-8% del totale) saranno cancellati, un taglio medio ai bilanci dei ministeri del 19% (con le sole eccezioni della sanità e dell'istruzione).

Bene, immaginate ora che il governo Berlusconi proponga qualcosa di simile: sarebbe il grande passo verso la rivoluzione liberale. Chi la reclama chiede infatti l'abbassamento delle tasse sul reddito (i redditi lordi italiani di 75.000 euro sono già i più tassati al mondo), l'abolizione dell'IRAP e di balzelli vari. Poi occorre cominciare una buona volta a ridurre il debito pubblico.

Per raggiungere quegli obiettivi le misure non potrebbero essere che qualcosa di simile a quanto proposto in GB: tagli alla spesa pubblica. Ovviamente, mutatis mutandis, dato che sussidi di disoccupazione da tagliare da noi non ce ne sono, occorrerebbe ad esempio rimettere il ticket sanitario.

Ridurre poi i dipendenti pubblici di mezzo milione appare difficile, dato che da noi non possono essere licenziati. Diciamo allora che venga stabilito il blocco totale delle assunzioni per i prossimi cinque anni con riduzione degli stipendi del 5% (ma basterebbe?).

In GB poi il bilancio della difesa verrà ridotto dell'8%. Ma anche lì da noi non ci sono i margini, per cui occorrerebbe tagliare altrove. Tipo riducendo la cassa integrazione.

Poi occorrerebbe trovare le risorse (leggi: altri tagli) per tagliare l'IRAP, per mettere la doppia flat tax che era nel programma di Forza Italia del 1994). Quindi basta trasferimenti all'INPS, alle FFSS, basta finanziamenti al sud...

Ecco, immaginate che venga proposto tutto ciò: quello sarebbe l'inizio della rivoluzione liberale, quella auspicata non soltanto da Antonio Martino e Benedetto Della Vedova, ma evocata da Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Paolo Guzzanti e così via. Che cosa accadrebbe l'indomani dell'approvazione in Consiglio dei Ministri? Lo scenario più probabile è che:
  • la sinistra insorgerebbe gridando alla macelleria sociale
  • il fronte sindacale CGIL-CISL-UIL si ricompatterebbe esigendo il ritiro immediato della proposta
  • vi sarebbero scioperi e manifestazioni di dipendenti pubblici, privati e studenti. Il sistema logistico stesso del paese verrebbe messo alle corde
  • la Confindustria sarebbe la prima a cedere, chiedendo al governo di assicurare la pace sociale, la stampa terzista si accoderebbe, e probabilmente anche il presidente della repubblica e la chiesa cattolica inviterebbero il governo a mediare fra le esigenze del rigore e quelle della giustizia sociale
  • tutto ciò si rifletterebbe in un calo della maggioranza nei sondaggi, e i sopracitati politici "liberali" sarebbero i primi a defilarsi
    Il resto lo potete immaginare.

    Il problema è che vi sono tante categorie in Italia che ricevono privilegi che sarebbero toccati da questa proposta. Tradotto in numeri si tratta di qualche milione di persone: circa quattro milioni di dipendenti pubblici e parapubblici, circa mezzo milione di persone in cassa integrazione (e un imprecisato numero di lavoratori che potenzialmente potrebbero divenirlo e che pertanto non vorrebbero perdere quella garanzia di sostegno), un imprecisato numero di persone il cui lavoro dipende dall'erogazione di contributi pubblici, tutti quelli che vorrebbero andare in pensione senza attendere i 66 anni, tutti quelli a basso reddito che non vorrebbero pagare il ticket sanitario, nonché i familiari di tutti costoro. In pratica mezza Italia, fra cui gente che vota per il centro-destra, sarebbe nei fatti contraria a questa rivoluzione liberale.

    Non è che Berlusconi da sedici anni non attua la rivoluzione promessa per il gusto di attirarsi le critiche dei liberali. Fa così perché sa che i margini di manovra sono molto esigui. E sa che se si lanciasse in un tentativo kamikaze come quello appena esposto il risultato sarebbe una via di mezzo fra ciò che accadde nel 1994 al suo governo e quello che sta accadendo in questi giorni in Francia.

    Il fatto che la situazione economica di molti Italiani dipenda in qualche misura dallo statalismo complica il compito di riformare il paese in senso liberale. Oltre a ciò, pur essendo la situazione tutt'altro che rosea, il paese è pur sempre relativamente benestante. Questo fatto disincentiva la gente a fare i sacrifici necessari a cambiare il paese.

    Data questa situazione, paradossalmente occorrerebbe che la situazione economica peggiorasse di brutto, di modo che in pochi avrebbero voglia di scendere in piazza per difendere l'attuale sistema statalista. Ovviamente è uno scenario non auspicabile. E inoltre, come è accaduto dopo la crisi in Argentina, non è detto che quella situazione farebbe andare il paese nella direzione auspicata.

    Un'ultima considerazione: nel solo paese latino in cui è stata fatta una rivoluzione liberale (rectius: liberista) ciò è avvenuto perché il governo non doveva preoccuparsi dei sondaggi d'opinione. Noi il Chicago Boy ce l'avremmo anche, ma il suo dante causa -come detto- non può garantirgli i pieni poteri.



    P.S.: Gianfranco Fini, che per Benedetto Della Vedova è il nuovo leader liberale che dovrebbe guidare l'Italia, e che come detto rinfaccia a Berlusconi di non avere attuato la rivoluzione liberale, propone oggi di alzare la tassazione delle "rendite finanziarie" dal 12.5% al 24-25%. Come una Serracchiani qualunque.

    venerdì 22 ottobre 2010

    I probiviri e i metodi "staliniani"

    Leggo che anche l'UDC, avrebbe deferito uno dei suoi iscritti, il parlamentare Michele Pisacane, ai probiviri. A Pisacane l'UDC rimprovera un'intervista che La Repubblica riassume così: "sto nell'Udc, tratto col Pd e forse voto Pdl". Secondo Lorenzo Cesa, segretario dell'UDC, quelle parole avrebbero danneggiato l'immagine del partito. Per questi motivi ne chiede l'espulsione.

    Nel 2008 il PD deferì Riccardo Villari ai probiviri, che in quel partito prendono il nome di Commissione Nazionale di Garanzia. La quale commissione decise di espellere Villari, reo di non volersi dimettere alla presidenza della Commissione di Vigilanza sulla RAI, alla quale era stato eletto con (prevalentemente) i voti del PDL, per fare posto al candidato designato dal partito. Detto comportamento, secondo i probiviri del PD, violava i "principi di correttezza che lo Statuto ed il Codice Etico richiedono ai suoi iscritti ed eletti", nonché, anche in questo caso, era ritenuto "gravemente lesivo dell’immagine del PD".

    Altri casi di espulsione dai partiti li trovate narrati qui.

    Villari definì la sua espulsione "staliniana". Lo stesso aggettivo lo ha usato Fini quest'estate a proposito della sua uscita dal PDL. Nel caso di Villari va detto che ci fu un dettaglio grottesco che ricordò davvero le purghe staliniane: Villari non solo fu espulso, ma il suo nome fu pure cancellato dall'elenco dei fondatori del PD, allo stesso modo in cui i trotzkisti, una volta che furono caduti in disgrazia, venivano cancellati dall'iconografia ufficiale dell'URSS.

    Ma ha titolo Fini di evocare il trattamento staliniano, oppure lui sta fra gli epurati come un imbucato in una festa? Per rispondere occorre chiarire i presupposti: chi entra nei partiti ne accetta i regolamenti interni. I quali prevedono che si debba tenere un certo tipo di comportamento, la cui inosservanza è sanzionabile da un collegio arbitrale interno chiamato appunto "probiviri".

    Viene allora da chiedersi se dette espulsioni siano giustificate o meno. E prima ancora se lo siano i deferimenti. E, nel caso di Fini, dato che non vi sono stati né espulsione né deferimento, se le affermazioni dell'Ufficio di Presidenza del PDL che dichiaravano che i comportamenti tenuti da Fini erano incompatibili coi principi ispiratori del PDL siano legittime o abbiano un contenuto prevaricatore.

    L'ufficio di presidenza di un partito avrà pure il diritto di esprimere giudizi senza per quello essere tacciato di stalinismo. Oppure ritiene Fini di avere diritto di dire quel che gli pare senza che il partito al quale ha aderito e alle cui regole comportamentali egli ha liberamente scelto di conformarsi possa eccepire alcunché?

    Questo per quel che riguarda Fini. Bocchino, Granata e Briguglio sono stati invece deferiti ai probiviri, e il loro caso dovrebbe essere esaminato nei prossimi giorni. Chi ha ragione? Sarebbe opportuno che al giudizio venisse data la massima pubblicità possibile. Che venissero pubblicati i capi d'imputazione, e che gli imputati prendessero posizione nello specifico. Affinché tutti possano giudicare chi ha ragione e chi ha torto.

    Invece i tre annunciano di non volersi neppure difendere, dato che ritengono di non essere più nel PDL, pertanto non più tenuti al rispetto delle sue regole interne e quindi non soggetti alla sua giustizia interna. Ma così facendo danno implicitamente ragione a chi li accusava di aver agito da avversari del PDL pur stando all'interno del PDL. Così dicendo accettano implicitamente il contenuto dell'accusa. Perché il giudizio ha ad oggetto comportamenti tenuti quando loro stavano ancora nel PDL ed accettavano di poter essere giudicati dai probiviri. E un conto è dire che non hanno fiducia nell'indipendenza di giudizio dei probiviri, che potrebbero essere sospettati di conformarsi al volere di Berlusconi, un altro è non mettere in discussione l'indipendenza dei probiviri, ma chiamarsi fuori dal gioco e dalle sue regole.

    A questo punto occorre che i finiani ammettano che quando stavano ancora nel PDL ci stavano con una riserva mentale: quella di non accettarne né le regole interne, né l'autorità degli organi preposti al loro rispetto. E neppure che chi dirigeva il partito potesse censurare un eventuale loro comportamento antitetico.

    Alla luce di queste considerazioni qualcuno crede ancora che Fini sia stato cacciato con metodi staliniani?

    mercoledì 20 ottobre 2010

    "Andate a controllare su Internet!"

    La puntata di Ballarò di ieri sera ospitava ancora una volta Bondi e Di Pietro, la nota saliente venente proprio da quest'ultimo, quando, nel contestare le ricostruzioni storiche fatte da Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, sulle cause delle cadute dei governi Berlusconi nel 1994 e Prodi nel 2008, ha iniziato a sbraitare che si trattava di falsità, invitando la gente a controllare su Internet.

    Sì, "a controllare su Internet" sono state le sue parole esatte. Come se Internet fosse il luogo dove è depositata la verità assoluta. Sallusti sosteneva che nel 1994 l'avviso di garanzia (rectius: l'avviso di comparizione) recapitato a Berlusconi a Napoli, mentre presiedeva una conferenza internazionale sul crimine ed era sotto i "riflettori" delle televisioni di mezzo mondo, fosse stata la causa che determinò la caduta del governo. Di Pietro sosteneva invece che fosse caduto sulla riforma delle pensioni.

    Sul governo Prodi stessa storia: Sallusti sosteneva che il governo Prodi fosse caduto a causa di inchieste giudiziarie fra cui quella di De Magistris denominata "Why Not?", inchiesta che in sede di udienza preliminare sarebbe stata, per usare un eufemismo, ridimensionata. Anche qui Di Pietro contestava che l'inchiesta che determinò la caduta fosse invece un'altra.

    In realtà è ovvio che le inchieste giudiziarie formalmente non abbiano il potere di far cadere i governi, ma i loro effetti possono determinare nei soggetti politici la volontà di farli cadere o meno. Il governo Berlusconi cadde perché fu votata una mozione di sfiducia, quello Prodi perché non fu votata una mozione di fiducia.

    Cosa indusse realmente la Lega nel 1994 e Mastella nel 2008 a ritirare l'appoggio è materia se vogliamo di dibattito storico recente. Di certo, anche se Internet può aiutare a ricostruire la cronologia dei fatti, non è Internet a dirci tutta la verità, che è formata dai fatti noti e dai retroscena, che in quanto tali non sono a portata di un qualsiasi utonto capace di fare una ricerca su Google.

    Abbiamo il "popolo di Internet", che altro non è che un gruppo di gente che invece di passare il suo tempo libero davanti alla tv o leggendo i giornali, legge (e commenta sui forum ripetendo a pappagallo) quello che gli propinano i suoi siti di riferimento. Ora abbiamo Internet che attesterebbe la verità storica, con gli imbarazzanti corollari che ciò che non vi si trova è come se non fosse mai avvenuto, e ciò che è scritto su Wikipedia viene considerato la verità rivelata.

    Il popolo del Coglionistan è tutto qui nel testo che avete appena letto. E ieri è stato evocato da Di Pietro a Ballarò.

    sabato 9 ottobre 2010

    Un nuovo governo, una nuova legge elettorale

    La linea politica del PD è, secondo quanto dichiarato da Bersani, di andare a un "breve governo di transizione con al primo punto una legge elettorale". Non si tratta di una dichiarazione isolata, ma di una linea confermata durante l'estate da altri esponenti del suo partito. Da Marino, che propone di fare un "Governo per cambiare legge elettorale e poi voto", e da Fassino, che dice: "Non vogliamo un ribaltone, ma un governo con un solo obiettivo: cambiare la legge elettorale".

    La domanda è: perché per votare una nuova legge elettorale il PD pensa di dover formare un nuovo governo? Non sarebbe più logico che facesse la sua proposta di riforma o che cercasse un compromesso sul tema in parlamento, senza bisogno di aprire una crisi di governo? Dopo tutto le leggi le fa il parlamento e non il governo.

    Ovviamente quello che il PD non dice è che non vuole negoziare l'ipotetica legge elettorale con l'attuale maggioranza (o parte di essa) rimanendo all'opposizione, ma vuole formarne una nuova. Il che, tradotto in un linguaggio semplice, vuol dire che propone un ribaltone.

    Oltre a ciò la posizione del PD è insostenibile, perché il PD stesso non sa quale legge elettorale vuole. Dire di non volere la legge attuale perché sarebbe "una porcata" non è sufficiente: occorre dire quale altro tipo di legge elettorale si vuole. E lì casca l'asino, perché nel PD c'è chi come D'Alema che vuole il sistema tedesco (cioè una proporzionale), chi come Veltroni che vuole il sistema francese (cioè un maggioritario a due turni) e altri che vorrebbero il ritorno alla legge Mattarella.

    Quindi, anche qualora venisse fatto questo nuovo governo, esso sarebbe antidemocratico per due ragioni: la prima perché sovvertirebbe le elezioni del 2008 e la seconda perché la ragione prima della sua formazione (la riforma elettorale) sarebbe avvolta nel mistero fintanto che le fazioni al potere non raggiungessero un accordo.


    Sarebbe maggiormente rispettoso della democrazia che il PD prima si chiarisse le idee su quale sistema elettorale vuole (e che lo facesse una volta per tutte), che lo mettesse nero su bianco, e che prendesse posizione durante una campagna elettorale. Davanti alla gente. Ciò affinché la gente abbia la possibilità di dire la sua, e non di assistere da sudditi allo spettacolo dei politicanti.

    domenica 3 ottobre 2010

    Comitato di redazione? No, calci in culo!

    Il 2 e 3 ottobre 2010 il Corriere della Sera non è uscito a causa di uno sciopero dei suoi giornalisti. Sai che novità, qualcuno potrebbe dire: a volte capita che nel Coglionistan i giornalisti facciano sciopero. Capita per esempio che a scioperare siano tutti i giornalisti. In quel caso il telegiornale RAI va in onda in forma succinta (il che volendo è anche un bene, dato che il prodotto ne guadagna in concisione) "e senza servizi in video e voce" (cito a memoria una formula udita varie volte). Dopo di che il giornalista che appare in video, che non è l'usuale conduttore del telegiornale, ma il tipico panzone (nell'accezione brunettiana del termine) sindacalizzato, declama di essere lì in quanto autorizzato dal comitato di redazione. E già qui uno potrebbe dire "e a noi che ce ne frega del perché e del percome sei proprio tu ad essere in video?".

    Ma quello che è peggio è che il panzone prosegue leggendo il comunicato del famigerato comitato di redazione. Ancora una volta non si capisce cosa al telespettatore gliene possa fregare delle vertenze fra i giornalisti e gli editori (anche se i giornalisti, oltre che per il vile denaro, dicono sempre di scioperare per tutelare i nobili diritti d'informazione dei cittadini): forse che quando a scioperare è un'altra categoria i telegiornali ritengono utile o interessante leggerne i comunicati?

    Ciò ad ogni modo è utile per rendere edotti i cittadini del Coglionistan che in ogni giornale c'è un comitato di redazione. Wikipedia ci dice che esso serve a tutelare "i diritti morali e materiali derivanti ai redattori dal contratto di lavoro e dalla legge". Uno pensa che per tutelare i propri diritti (materiali) ci siano i tribunali civili. Invece i giornalisti usano questa specie di soviet. E i diritti "morali"? Suppongo non abbiano niente a che vedere col diritto d'autore, ma che siano pretese di varia natura (non economica) dei giornalisti.

    Un esempio di pretese dei giornalisti è dato appunto dalo sciopero di questi giorni al Corriere della Sera. Lì il CdR ha fatto il suo comunicato in cui stigmatizza che "invitati a un tavolo di trattativa sulla multimedialità, i componenti del Cdr non hanno trovato nemmeno un inizio di confronto, ma soltanto una lettera" che "elencava già i risultati che una pseudo-negoziazione avrebbe dovuto raggiungere". E quali sono questi risultati che il Corriere pretende? Li elenca il suo direttore, Ferruccio De Bortoli:

    Non è più accettabile che parte della redazione non lavori per il web o che si pretenda per questo una speciale remunerazione. Non è più accettabile che perduri la norma che prevede il consenso dell'interessato a ogni spostamento, a parità di mansione. Prima vengono le esigenze del giornale poi le pur legittime aspirazioni dei giornalisti. Non è più accettabile che i colleghi delle testate locali non possano scrivere per l'edizione nazionale, mentre lo possono tranquillamente fare professionisti con contratti magari per giornali concorrenti. Non è più accettabile l'atteggiamento, di sufficienza e sospetto, con cui parte della redazione ha accolto l'affermazione e il successo della web tv. Non è più accettabile, e nemmeno possibile, che l'edizione Ipad non preveda il contributo di alcun giornalista professionista dell'edizione cartacea del Corriere della Sera. Non è più accettabile la riluttanza con la quale si accolgono programmi di formazione alle nuove tecnologie. Non è più accettabile, anzi è preoccupante, il muro che è stato eretto nei confronti del coinvolgimento di giovani colleghi.
    De Bortoli prosegue con una considerazione di buon senso:
    continuando così, non c'è più futuro per la nostra professione. E, infatti, vi sfido a contare in quanti casi sulla Rete è applicato il contratto di giornalista professionista.
    La risposta dei panzoni giornalisti del Corriere della Sera? Eccola qui:
    L'assemblea dei giornalisti ha votato due giorni di sciopero immediato e ha consegnato al Comitato di Redazione un pacchetto di ulteriori cinque giorni per rispondere all'attacco che il Direttore ha mosso contro le tutele e le regole che garantiscono la libertà del loro lavoro e, di conseguenza, l'indipendenza dell'informazione che il giornale fornisce.
    Cioè il datore di lavoro, vista la crisi del settore, gli offre la possibilità di fare dei corsi gratis di tecnologie multimediali, che gli darebbero la possibilità di (ri)qualificarsi, e questi proclamano due giorni di sciopero immediato, minacciandone altri cinque. E hanno la faccia di dire che combattono per "l'indipendenza dell'informazione".

    Mi viene da sorridere se penso che il celebre libro La Casta è stato scritto proprio da due giornalisti del Corriere della Sera...

    mercoledì 29 settembre 2010

    Servizio pubblico ad usum coglionorum

    La puntata di Ballarò di ieri sera può essere riassunta così: Bondi ha accusato i finiani di impedire con la loro scissione l'azione di governo e le riforme. Bocchino gli ha replicato che la scissione è la conseguenza delle riforme non avvenute. Luttwak ha giustamente commentato che, stante l'ampia maggioranza parlamentare, i forti consensi nel paese, la debolezza dell'opposizione e il rispetto che Berlusconi, Frattini e Tremonti hanno a livello internazionale, non si capisce perché Fini abbia deciso di spaccare la maggioranza.

    Lo scambio di battute fra Bondi e Bocchino riassume in poche parole il surrealismo della situazione: al telespettatore arriva il messaggio di uno scontro su delle riforme da attuare, ma non gli viene spiegato né chi sia a bloccare quelle riforme, né di quali riforme si stia discutendo. E l'impressione è che nessuno in studio lo sapesse con esattezza. Luttwak, in collegamento da Washington, ci ha provato, spiegando che nessuna impresa straniera viene a investire in Italia a causa della burocrazia e dell'inaffidabilità del sistema giudiziario. Il suo commento è stato ignorato.

    E l'opposizione? C'era la Serracchiani che ha chiesto la tassazione delle "rendite finanziarie" (sì, ha usato proprio quelle parole). Continuiamo a farci del male.

    mercoledì 22 settembre 2010

    Out of touch

    È notizia di questi giorni che i dirigenti del PD hanno mandato via e-mail a iscritti e simpatizzanti un questionario in cui si chiede la loro opinione su vari temi:
    • i contenuti del discorso di Bersani tenuto alla festa del PD
    • le dichiarazioni di Renzi contro la linea di Bersani
    • la proposta alternativa di Veltroni
    • lo stato del PD
    • le aspettative dei suoi elettori e altre cose
    Al di là del fatto che un militante (o ancor di più un simpatizzante) possa sentirsi gratificato del fatto di essere investito di un potere d'indirizzo del suo partito, la cosa è uno spunto per riflettere. Un partito è generalmente fatto da gente che fa politica al fine di raggiungere certi scopi. Si suppone che chi (da anni e anni) fa politica a tempo pieno debba avere le idee un tantino più chiare di un semplice militante o addirittura di un elettore.

    Quindi il fatto che il PD, un partito organizzato e strutturato all'europea, deleghi la scelta del suo capo a gente esterna è già un brutto segno, giacché indica che il suo gruppo dirigente ha abdicato a una delle sue funzioni.

    Ora, con il questionario, i dirigenti del PD chiedono alla gente che politica occorra fare.

    Quando nel 1990 il gruppo dirigente del partito conservatore britannico sfiduciò Margaret Thatcher, fu detto che oramai, dopo undici anni al potere, la Lady di ferro era out of touch col paese, e che l'introduzione della Poll Tax e i conseguenti disordini erano lì a provarlo.

    Nel caso dei dirigenti del PD l'espressione out of touch pare financo benevola.

    lunedì 13 settembre 2010

    Servi e padroni

    Sembrano gli slogan degli anni settanta. Invece sono del settembre 2010. A Torino qualcuno è andato alla festa del PD a contestare il sindacalista Bonanni, reo di essere troppo accomodante con le controparti.



    La foto è presa dal Corriere della Sera. La galleria completa la trovate qui.

    Lo slogan scritto sul cartellone è:

    IL DENARO È UN BUON SERVO E UN CATTIVO PADRONE
    ...e io vorrei più denari, più servi e più padroni

    Un altro striscione recava lo slogan:

    MARCHIONNE COMANDA, BONANNI OBBEDISCE

    Sembra impossibile, dopo che le tesi di Marx sono state confutate, dopo che i regimi del socialismo reale sono stati rovesciati dagli stessi popoli nei cui interessi governavano (e sostituiti da modelli assai liberisti), dopo che l'Internet e i viaggi low-cost aiutano a diffondere informazione e conoscenza, che ci sia ancora gente prigioniera di questi concetti errati.

    Nessuno vuole togliere loro le pulsioni ideali marxiste, ma dato che spesso sono studenti di lungo corso, ci vuole molto a capire che uno come Marchionne "padrone" lo è per modo di dire, e che in realtà è "servo" anch'egli degli azionisti, i quali a loro volta sono "servi" delle banche che li finanziano, che a loro volta sono "serve" nelle loro decisioni dei risultati delle vendite della FIAT. E che quindi alla fine i veri padroni sono i consumatori (fra cui magari i genitori dei contestatori) che decidono di comprare Toyota piuttosto che FIAT.

    E poi la maledizione del denaro. Ma loro credono in una società basata sul baratto o magari sulle tessere annonarie?

    E infine la libertà sindacale: se non vi piace Bonanni, nessuno vi obbliga a iscrivervi alla CISL. In Italia non manca certo la scelta dei sindacati o cobas a cui iscriversi. Che i lavoratori sconfessino Bonanni, se ritengono che non faccia gli interessi dei lavoratori.

    L'unica cosa certa è che queste scene accadono solo da noi. Qualcuno vagheggia per l'Italia un futuro da paese normale. Forse quel qualcuno farebbe bene a riflettere su quali siano i germi (e chi li ha seminati) che producono queste aberrazioni mentali.

    giovedì 9 settembre 2010

    Espulsione? Quale espulsione?

    La vulgata predominante nel Coglionistan dice che Fini sia stato espulso dal PDL. Lo stesso Fini ha aggiunto che le modalità in cui la sua espulsione sarebbe avvenuta sono degne del peggiore stalinismo, dato che l'organo dirigente del PDL lo avrebbe espulso in mezz'ora senza neppure ascoltare le sue ragioni.

    Una piccola domanda: qualcuno ha forse visto il provvedimento d'espulsione?

    Viene detto che l'atto con cui il PDL avrebbe espulso Fini è il documento dell'Ufficio di Presidenza del 29 luglio. Lo stesso Fini nel suo discorso a Mirabello ha affermato che Berlusconi lo ritiene incompatibile col PDL e quindi lo ha messo alla porta.

    La realtà è invece diversa. Leggiamo assieme il documento. L'aggettivo "incompatibile" vi appare due volte. Una prima quando dice che:

    Partecipare attivamente e pubblicamente a quel gioco al massacro che vorrebbe consegnare alle Procure della Repubblica, agli organi di stampa e ai nostri avversari politici i tempi, i modi e perfino i contenuti della definizione degli organigrammi di partito e la composizione degli organi istituzionali, e’ incompatibile con la storia dei moderati e dei liberali italiani che si riconoscono nel Popolo della Liberta’.
    E una seconda allorché aggiunge che:

    questo ufficio di Presidenza considera le posizioni dell’On. Fini assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Liberta’, con gli impegni assunti con gli elettori e con l’attivita’ politica del Popolo della Liberta’.
    Quindi ad essere incompatibile non è Fini, ma certe posizioni politiche che ha tenuto. E oltre a ciò il documento non conclude decretando la sua espulsione ma dice che:

    Di conseguenza viene meno anche la fiducia del PdL nei confronti del ruolo di garanzia di Presidente della Camera indicato dalla maggioranza che ha vinto le elezioni.

    Ovvero chiede le dimissioni di Fini da presidente della Camera dei deputati. Solo quello. Nessun deferimento, nessuna espulsione.

    Occorre poi aggiungere che il PDL non ha neanche espulso Bocchino, Granata e Briguglio, ma li ha solo deferiti ai probiviri, che sono gli organi arbitrali interni. I quali li potrebbero espellere o anche no. O addirittura dargli ragione.

    Quindi Fini non è stato espulso, ma è stato lui ad "andarsene": questo dicono i fatti. E questo occorre dire, a prescindere dal fatto che si parteggi per l'uno o per l'altro.

    Per finire una considerazione: se Berlusconi, come si dice, controlla l'informazione, non si capisce come mai alla maggioranza della gente sia arrivato il messaggio del Fini espulso.

    mercoledì 8 settembre 2010

    Si comincia

    Il Coglionistan è una nazione immaginaria che si manifesta su Internet e che si sovrappone a un'altra nazione il cui territorio è una nota penisola del mare Mediterraneo.
    Il modo in cui i suoi abitanti amano manifestarsi è mediante blog, forum, siti web e quant'altro.
    E' una nazione spassosa, con personaggi di varia indole e natura, tantissima televisione, molta ideologia, poca razionalità e nessuna memoria storica.
    In questo blog si racconterà il paese visto da lontano, dato che chi scrive vive all'estero da anni. Occasionalmente lo si paragonerà ad altri paesi; oppure si cercherà di fare qualche riflessione, qualche spunto, qualche approfondimento.
    Benvenuti nel Coglionistan, nella speranza che lo "stan" non si verifichi mai davvero, ma che il paese possa piano piano divenire "un paese normale" (cit.).