martedì 26 aprile 2011

Considerazioni sul divieto di ricostituzione del partito fascista

Il divieto di ricostituire il partito fascista, o ipoteticamente qualsiasi altro partito, mi ha sempre convinto poco. Per queste ragioni:
  1. Rinneghiamo i nostri principi? Un ordinamento che s'ispira a libertà e democrazia rinnega se stesso se vieta a taluni di godere di quei diritti. Riguardo alla libertà, chi crede nel fascismo non è libero di proporre alla gente quell'ideologia, e riguardo alla democrazia, il demos non è libero di sceglierla.
  2. Proibiamo il fascismo; e gli altri? Se anche ammettessimo che in quanto liberali e democratici non dobbiamo ammettere le organizzazioni che professano l'abbattimento di quei principi (non si tratta da amico il nostro nemico), avremmo dovuto applicare quel principio ad ogni partito che si proponeva ciò, a cominciare dal partito comunista, come avvenne in Germania e in Svizzera.
  3. Chi dà patenti di democraticità? Se anche ammettessimo che non si può fare di tutt'un erba un fascio, ma che si dovrebbe valutare caso per caso, e che il PCI poteva dimostrare -per storia e per altre circostanze- di essere un partito democratico a tutti gli effetti, chi potrebbe stabilire l'ammissibilità o meno di un'organizzazione? Simili decisioni non potrebbero di certo essere demandate ai tribunali.
  4. Vieti il PNF e arriva l'MSI. Basta appunto cambiare nome e ragione sociale per eludere la norma. Ricordiamo che l'MSI s'ispirava al Manifesto del Congresso di Verona del PFR. Vogliamo credere che il forzato rebranding del partito fascista ne abbia disinnescato il potenziale eversivo?
  5. La storia non si ripete. Se lo scopo della norma è quello di prevenire lo sviluppo di un ipotetico partito che ci imporrebbe un regime autoritario, esso, qualora avvenisse, non si chiamerebbe fascismo, ma avrebbe nomi e forme diverse: parafrasando Marx, la costituzione ci ripara oggi solo dal ripetersi della storia in farsa. A riprova di ciò basti il fatto che quella norma (e quella sull'apologia di fascismo) hanno perseguito solo gruppuscoli insignificanti che di certo non hanno mai posto (e né porranno) nessuna minaccia alla democrazia.
  6. Come si difende la democrazia? Risposta: praticandola. In altre parole, è da ingenui pensare che la nostra democrazia e la nostra libertà restino ciò che sono perché in un pezzo di carta c'è scritto che è vietato tornare al fascismo. Se fosse così semplice, come osservò a suo tempo il deputato radicale Mauro Mellini, oltre a scrivere in un pezzo di carta che la Loggia P2 è sciolta si potrebbe scrivere che pure la mafia lo è...
  7. Che cosa si vieta? Se un domani ci sarà un colpo di stato fascista, esso ci sarà anche se la costituzione lo vieta. Viceversa la norma vieta a chi vuole fare politica fascista alla luce del sole e con mezzi democratici. Inoltre ciò che si vuole prevenire (colpi di stato, svolte autoritarie, violenze delle squadracce, limitazioni alla libertà) è già proibito da altre norme, e chi tentasse atti concreti di sovversione verrebbe perseguito.
  8. Perché abbiamo quella norma? Questo è un punto importante da chiarire, perché oltre alle considerazioni di cui sopra, la vera motivazione storica per cui quella norma è presente in Costituzione è un'altra. È che ciò ci fu imposto dagli Americani, prima all'art. 30 dell'Armistizio di Cassibile:
    Tutte le organizzazioni fasciste, compresi tutti i rami della milizia fascista (MVSN), la polizia segreta (OVRA) e le organizzazioni della Gioventù Fascista saranno, se questo non sia già stato fatto, sciolte in conformità alle dispozioni del Comandante Supremo delle Forze Alleate. Il Governo italiano si conformerà a tutte le ulteriori direttive che le Nazioni Unite potranno dare per l'abolizione delle istituzioni fasciste, il licenziamento ed internamento del personale fascista, il controllo dei fondi fascisti, la soppressione della ideologia e dell'insegnamento fascista.
    e poi all'art. 17 del successivo trattato di pace:
    L'Italia, la quale, in conformità dell'articolo 30 della Convenzione di Armistizio, ha preso misure per sciogliere le organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili organizzazioni, siano esse politiche, militari o militarizzate, che abbiano per oggetto di privare il popolo dei suoi diritti democratici.
  9. Il fascismo fu un male assoluto tale da giustificarne oggi un espresso divieto? Suvvia, siamo onesti con noi stessi e guardiamo in faccia la realtà. Il fascismo arrivò perché il paese aveva preso una china opposta altrettanto -se non di più- pericolosa. E il popolo italiano lo accettò quale male minore. Quindi se noi vietiamo ciò che ipoteticamente il popolo potrebbe tornare a volere, noi vietiamo al popolo di poter volere qualcosa. Si dirà: a quello servono le costituzioni rigide. Mi permetto di dissentire: la rigidità serve unicamente a prevenire che un cambio di maggioranza temporaneo possa approfittare dei propri mezzi parlamentari per conculcare i diritti costituzionali. O per farlo a dispetto del volere ultimo del popolo, che può rifiutare le modifiche costituzionali per via referendaria. Ma se detta maggioranza viene confermata più volte dal popolo si pone un'evidente contraddizione, giacché la costituzione non sarebbe più democratica. A quel punto si veda il punto 6.
    Può darsi che in un futuro (chi può dirlo?) l'Italia evolva verso una forma di neo-autoritarismo (secondo taluni il berlusconismo lo è). Pensare di difendere lo status quo mediante un pezzo di carta è illusorio.
In conclusione la XII disposizione (non) transitoria e finale della Costituzione è inutile oltre che ingiusta. Volerla abolire oggi di per sé è tutt'altro che scandaloso. In pratica però ogni proposta in tal senso viene bollata essa stessa di fascismo, e tutto finisce in caciara.

lunedì 18 aprile 2011

Prevenire sarebbe meglio che curare

Qui si sta dalla parte della Thyssen. E non solo perché trasformare una disgrazia, colpevole ed evitabile, in un omicidio volontario è un'enormità, ma anche perché se i dirigenti Thyssen sono responsabili, anche lo stato che non ha fatto i dovuti controlli ha la sua parte della colpa.

Come osserva Chicago Blog, dolo eventuale che sia o meno, il problema è che la politica dello stato in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro è di fatto basata sulla repressione e non sulla prevenzione.

È un po' come la politica della prevenzione degli incidenti stradali: per farla occorre fare controlli capillari del tasso di alcool, occorre costruire strade più sicure, fare campagne educative. Invece lo stato si limita ad alzare le pene o a rendere la vita dei neo-patentati più dura.

Il che rende la vita della pubblica amministrazione più facile. Ma che porta a casi come quello in oggetto, unico in Europa dove degli imprenditori vengono trattati come dei criminali.

venerdì 15 aprile 2011

Quando il governo va sotto

Nel Coglionistan i giornali sono soliti mettere in evidenza, e se del caso rallegrarsi, quando il governo va in minoranza in certe votazioni in Parlamento. Distinguiamo: può capitare che una parte della maggioranza voti con l'opposizione, e allora trattasi di un fatto più che legittimo, diciamo fisiologico, in una democrazia parlamentare. Ma capita che l'esito a sorpresa sia frutto di ostruzionismo, imboscate, assenze, errori e disfunzioni varie. Nel qual caso non si capisce proprio di che le opposizioni di turno e i loro scherani si rallegrino: trattasi solo di incidenti di percorso che tutt'al più fanno perdere tempo, dato che la maggioranza può in ogni momento votare di nuovo e ribaltare il risultato.

In democrazia vi sono la maggioranza e la minoranza. Esse sono tali per volere del popolo, e solo il popolo può invertire i fattori. Naturalmente ciò non significa che i parlamentari abbiano un vincolo di mandato, ma significa che chi si propone di essere maggioranza a legislatura in corso ha il dovere democratico (ripeto: democratico, non legale) di usare questi incidenti di percorso per mostrare al paese che il governo non ha più la maggioranza in parlamento e quindi invocare elezioni anticipate al fine di avere loro un mandato popolare.

La nostra sinistra ha invece la brutta abitudine di usare questi incidenti per dare, usando il loro lessico, una "spallata" al governo. In altre parole l'agguato in parlamento vale quanto il colpo di piazza, le occupazioni di edifici pubblici, le inchieste giudiziarie, gli appelli al presidente della repubblica affinché non controfirmi leggi o decreti, mozioni del CSM o sentenze della Corte Costituzionale. Infatti tutte queste azioni hanno una cosa in comune: si pongono contro il volere del popolo e mirano a impedire alla maggioranza di governare.

Andando poi nello specifico, quando il governo va sotto in parlamento a causa di "incidenti di percorso", ciò perlopiù avviene perché la maggioranza è al governo, mentre l'opposizione non ha null'altro da fare che stare in parlamento. Infatti una parte della maggioranza 50-60 persone sono membri del governo (ministri o sottosegretari), mentre gli altri "curano" i rapporti con le constituencies (elettori, lobbies varie...).

A fronte di ciò l'attività parlamentare è fatta di votazioni spesso inutili su improbabili lunghe liste di emendamenti presentati dalle opposizioni, su mozioni non vincolanti, su approvazioni di processi verbali, su continue verifiche del numero legale e quant'altro. Se consideriamo che il premio di maggioranza alla Camera è di soli 28 seggi e (in questa legislatura) di 16 al senato, è statisticamente probabile che prima o poi capiti che i rapporti di forza in aula si ribaltino.

In Gran Bretagna la cosa viene gestita col fair play: quando un certo numero di deputati della maggioranza è assente, l'opposizione ne fa uscire altrettanti. Auspicare ciò significherebbe avere un sistema politico in cui entrambi gli schieramenti ritengano l'altro un avversario da battere secondo le regole della democrazia (scritte o meno che siano), comportandosi lealmente, e non un nemico da abbattere ad ogni costo, secondo la logica del "tanto peggio - tanto meglio".

lunedì 4 aprile 2011

Il sangue dei vinti

Il libro di Giampaolo Pansa "Il sangue dei vinti" del 2003 è ancora oggetto di polemica. Lo è stato tempo fa in questo blog d'opinione, e recentemente mi è capitato di leggerne qui.

Non saprei dire nel caso specifico del primo blog che ho citato, ma la mia impressione è che spesso chi ne dibatte, cosciente o meno di ciò, parta dai propri assunti ideologici, da tradizioni politiche o financo da esperienze, dolorose o meno, di famiglia. Ne consegue che è difficile forzarsi a dare un giudizio obiettivo, e che -ancora peggio- in molti si sono fatti un'idea del libro senza neppure averlo letto, ma basandosi sulle innumerevoli recensioni e giudizi (tutti di parte, vedi sopra) che si trovano in rete.

Fatti veri o falsi?

Io il libro l'ho letto. È una divulgazione senza pretese di alta letteratura o di accademia di fatti sino a quel momento sostanzialmente ignorati dalla storiografia. Ed è lo stesso Pansa a premetterlo nelle pagine iniziali del libro. Dunque chi l'ha letto non dovrebbe obiettare né l'assenza della citazione delle fonti a piè di pagina né altre cose che non ne fanno un libro di storia. Ad ogni modo, comunque la si pensi, lo stesso Pansa, allorché fu criticato per quei motivi da vari docenti universitari di materie storiche, li sfidò pubblicamente, loro e i loro assistenti, a trovarci delle inesattezze. La sfida non venne raccolta, pertanto si può affermare che nessuno sinora ha potuto sbugiardarlo.

Una rappresentazione distorta del contesto?

Viene poi detto che Pansa faccia iniziare la storia il 25 aprile 1945, ignorando fatti precedenti di opposta e analoga, se non peggiore, crudeltà. E che la conseguenza di ciò sia una sostanziale falsificazione della storia. Ma anche qui osservo che il libro di Pansa all'inizio di ogni capitolo racconta di quali colpe le vittime delle vendette si fossero macchiate. E oltre a ciò Pansa racconta cosa era successo in precedenza nelle zone in cui avvennero quei fatti. E che il fascismo fosse un regime è cosa nota. Così come è cosa nota la guerra e gli orrori che aveva portato.

Ogni avvenimento storico è il seguito di un avvenimento precedente che ne è il presupposto necessario. Pertanto obiettare che il libro di Pansa sarebbe scorretto perché inizia a narrare i fatti del 1945 omettendo quelli degli anni precedenti è un po' come dire che un libro sull'olocausto sarebbe scorretto se non trattasse anche dei fatti storici che portarono all'antisemitismo. Così non si dovrebbe parlare delle Fosse Ardeatine senza includere Via Rasella, né di Via Rasella senza parlare dell'occupazione tedesca, la quale non potrebbe essere trattata senza menzionare l'otto settembre, e così via fino alla notte dei tempi.

Al che qualcuno potrebbe obiettare che l'antisemitismo non può essere una giustificazione dell'olocausto. Il che è verissimo, così come è vero che il fascismo non giustifica le successive vendette. Oppure le giustifica? Allora occorre che chi brandisce l'argomento della necessità di contestualizzare quei fatti abbia il coraggio di ammettere esplicitamente ciò che esso implicitamente postula, cioè che le violenze fasciste, la guerra e l'occupazione tedesca avrebbero giustificato le successive vendette partigiane.

E l'idea per cui gli eccidi debbano essere contestualizzati va in crisi quando si nota che a compierli furono solo i partigiani rossi, e non quelli bianchi (i cattolici), verdi (Giustizia e Libertà) o azzurri (i liberali). E che anzi i partigiani rossi uccisero partigiani di altri colori (e non viceversa).

Ma allora occorre scegliere: o quei fatti sono avvenuti e possono essere narrati senza che Pansa si becchi l'epiteto di revisionista, dato che il contesto precedente li giustificherebbe, oppure quelle di Pansa sono ricostruzioni parziali, incomplete, da dilettante, senza fonti chiare, e il suo libro falsificherebbe sostanzialmente la storia. Ma come ho detto, sinora nessuno storico è riuscito a smontare il libro.

La vera questione dei libri di Pansa che agita il dibattito non è il loro contenuto, ma il fatto che i libri hanno avuto un grande successo di vendite e che l'autore ha un curriculum "rispettabile" (un giornalista che ha scritto a lungo su Repubblica e L'Espresso), che impedisce che il giudizio si limiti al dito e non alla luna. Se a scriverli fosse stato un reduce della Repubblica di Salò (come in passato avvenne) quasi nessuno se li sarebbe filati. E chi lo avesse fatto avrebbe indicato il dito, dicendo che era il dito di un fascista.

Detto questo, io ne consiglio la lettura. Perché i fatti narrati sono realmente avvenuti e non devono essere censurati, neanche per convenzione tacita. Altrimenti se la cultura della resistenza si deve basare sullo zittire gli avversari, sul negare i fatti imbarazzanti, sul fare dei partigiani un'agiografia ipocrita, ci troviamo davanti a un male simile a quello che la resistenza stessa ha combattuto. E purtroppo quello è il problema di fondo che Pansa ha scoperchiato.

venerdì 1 aprile 2011

Così non si fa

Questa è un'ingerenza. Leggo su Repubblica che Napolitano "chiama al Quirinale tutti i capigruppo e senza giri di parole gli spiega che così non si può andare avanti." L'articolo continua dicendo che Napolitano avrebbe convocato i capigruppo parlamentari "rispettando il suo ruolo istituzionale. Non vuole forzature. Tant'è che prima di tutto avverte il suo interlocutore diretto a Palazzo Chigi: Gianni Letta."

Certi articoli, certi comportamenti, così come certi non comportamenti da parte dei capigruppo, che accettano quest'atto d'imperio del titolare ultimo del potere esecutivo, ancorché solo formale, senza mandare pubblicamente Napolitano a quel paese, magari ricordandogli che lui può convocare il presidente del consiglio, ma non può certo permettersi di convocare membri del parlamento, fanno cascare le braccia.

In soldoni il nostro sistema istituzionale prevedeva il Re quale titolare del potere statale. Successivamente fu istituito il Parlamento quale organo con cui il Re doveva fare i conti (leggasi: ottenerne la fiducia ed eseguire le leggi da questo deliberate) per poter governare. Oggi la figura del Re è stata sostituita da quella del Presidente della Repubblica, che altro non è che un monarca repubblicano.

Se il Presidente della Repubblica convoca i capigruppo, sempre detto in soldoni, avviene che il capo supremo del potere esecutivo convoca i capi del potere legislativo. Non a caso la Costituzione stabilisce che Presidente e Parlamento possono interloquire mediante lo strumento del "messaggio alle camere".

Invece leggo che Letta "viene informato della intenzione di svolgere una "ricognizione diretta". Una procedura "istituzionale" ma inevitabile". No, la procedura non è "istituzionale e né è inevitabile. Di evitabile c'è solo il comportamento di Napolitano.

Oh, intendiamoci, invitare Cicchitto e colleghi a prendere un tè al Quirinale non è reato. Ma di strappo in strappo si finisce per rendere i confini istituzionali molto grigi, quando invece le cose devono essere bianche o nere. Si creano precedenti che un giorno potrebbero essere citati per sostenere cose inaccettabili.

Sarebbe stato opportuno che Cicchitto (e colleghi) avesse avuto i coglioni (nel senso degli attributi e non in quello dei cittadini del presente 'stan) di ricordare a Napolitano di stare al proprio posto, e di non interferire nella dialettica parlamentare, che sarà di certo parecchio, anche troppo, animata in questi giorni, ma che è DE-MO-CRA-ZIA.