mercoledì 27 novembre 2013

Sperimentare per prevenire

La soglia di povertà in Italia è stabilita a 1000 euro al mese per una coppia o a 1630 euro per una famiglia con due figli a carico. Nel 2008 l'ISTAT stimava che 1.126 mila famiglie (per un totale di 2 milioni e 893 mila individui) fossero sotto quella soglia. Dati del 2008: oggi temo che quei numeri siano più alti.

Facciamo finta che siano tuttora buoni e supponiamo che lo stato voglia dare 300 euro al mese in media ai più poveri. Stanziando 40 milioni di euro all'anno, come deciso dal governo Letta circa 11 mila persone beneficeranno di quel sussidio. Cioè pari a meno dello 0.4% dei poveri in Italia.

E allora cosa fa il governo Letta per da un lato annunciare alla stampa l'introduzione del reddito minimo e dall'altro giustificare uno stanziamento di fondi palesemente irrisorio? Dice che si tratta di una sperimentazione. Come se i destinatari di tale misura fossero delle cavie sottoposte a una terapia di cui si ignorano gli effetti. E che quindi è opportuno sperimentarne gli effetti solo su di un campione del 0.4% al fine di salvaguardare il restante 99.6% da spiacevoli effetti collaterali imprevisti.

Ma cosa ci sarà mai da sperimentare nella concessione di un sussidio di povertà? Forse Maria Cecilia Guerra, Viceministro del Lavoro e delle Politiche sociali, tanto brava a pontificare quando scriveva su lavoce.info, ora che invece è all’opera non è sicura degli effetti di questa misura?

E poi perché si scelgono i poveri che vivono nelle grandi città? Forse sono più poveri o meritevoli degli altri? O forse li si immagina più probabili elettori del PD?

Non lo leggerete su nessun giornale o portale web, ma definirla “sperimentazione” è solo un modo di gettare del fumo negli occhi della gente. L'effetto annuncio con la sperimentazione intorno. Per poi andare a vantarsi nei talk show di avere introdotto il reddito minimo, mascherando però il fatto che viene finanziato con lo 0.5% (40 milioni di euro) delle risorse che invece occorrerebbero (7 miliardi).

Un popolo di coglioni si merita un governo di pezzenti.

Cuneo fiscale o produttività?

Scrive Francesco Forte, di certo il più lucido commentatore economico di cose italiane in questi anni, a proposito del recente commento del Wall Street Journal sulle politiche del governo Letta:
I mali che il Wsj individua e le terapie che suggerisce, e che io condivido, sono assai differenti da quelle correnti che circolano nella Confindustria e fra i “riformisti” del Pd, che in parte le riecheggiano. Non c’è in questo articolo neanche un cenno al falso rimedio che essi sostengono: la riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro. Per me bugiardo surrogato della crescita della produttività che si può attuare solo fuoriuscendo dallo stato neo corporativo.
(...)
Mi pare condivisibile la diagnosi del quotidiano conservatore in cui c’è come punto centrale la non crescita che dipende dal mancato aumento della produttività, come detto. Questa è a sua volta collegata alla triade della mancata riforma del mercato del lavoro, della giustizia e della Pubblica amministrazione, dove albergano i tre grandi blocchi neo corporativi: di sindacati e Confindustria, della magistratura e delle burocrazie ai tre livelli di governo (centrale, regionale e locale) con le aziende ad essi connesse. Un’enfasi diversa da quella sulla regola del 3 per cento del bilancio da cui sono ossessionati il governo Letta e Bruxelles. Ma è appunto dalla produttività che dipende la riduzione del deficit e soprattutto del debito.
Riepilogando,
  • questi sono i tre principali problemi che frenano l'economia italiana:
  1. il mercato del lavoro
  2. la giustizia
  3. la pubblica amministrazione
  • e questi sono i tre blocchi che ne impediscono la riforma:
  1. i sindacati (e la Confindustria)
  2. la magistratura
  3. i dipendenti pubblici (e le aziende private che vivono di commesse pubbliche)
Si noti che i tre problemi sono quelli che Berlusconi indicò come tali, ma che non è riuscito a risolvere, mentre i tre blocchi sono proprio quelli che lo hanno avversato.

La morale della favola è chi governa e chi governerà potrà avere successo se sconfiggerà quei tre blocchi (o li convincerà a collaborare) al fine di riformare quei tre grandi problemi.

Ci sono le condizioni? Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Forte si limita a fare questa considerazione:
mi pare sbagliata la tesi del Wsj secondo cui si potrebbe evitare il camposanto, mediante Matteo Renzi. Lui non ha mai affrontato la “triade di riforme” di cui il quotidiano americano è paladino. Ma il Wsj ha ragione nel dire che queste riforme trovano un grave ostacolo nel Pd
Comunque vada prima o poi il PD, guidato o meno da Renzi, si troverà davanti il dilemma se affrontare il problema della produttività  riformando davvero il paese (e quindi mettendosi contro i suoi elettori) oppure uscendo dall'Euro (e quindi rimangiandosi le sue ben radicate convinzioni).

martedì 26 novembre 2013

A proposito di larghe maggioranze

A proposito di larghe maggioranze e conseguenti aspettative da parte della gente. Scriveva l'autorevole Angelo Panebianco sul Corriere della Sera (il grassetto è mio):
Una buona legge maggioritaria (ammesso, e non concesso, che egli riesca ad ottenerla) non basta per dare al Paese un buon governo. È una condizione necessaria, ma non sufficiente. Senza una riforma costituzionale che, per lo meno, superi il bicameralismo simmetrico (due Camere con uguali poteri) e dia qualche strumento di azione in più al primo ministro, un governo efficace ed efficiente non è possibile. Anche con una buona legge elettorale Berlusconi (come chiunque altro), in assenza di interventi sulla Costituzione, rischia domani di fallire nella azione di governo, pur disponendo, eventualmente, di una larga maggioranza parlamentare.
In realtà l'articolo di Panebianco non è di qualche anno fa, ma di oggi. E la parola in neretto Berlusconi l'ho messa io al posto della parola Renzi. Credo di aver reso l'idea.

lunedì 18 novembre 2013

I conti della serva

Forse ai più è sfuggito, ma questo fine settimana, oltre a segnare la scissione nel PDL, è stato il secondo anniversario della caduta del governo Berlusconi. La fine del suo governo ha comportato una specie di appoggio esterno dello stesso ai due governi che gli sono succeduti, quello Monti e quello Letta. Un appoggio talvolta leale, talvolta no. Comunque si voglia giudicare l'atteggiamento del PDL rispetto a questi due governi una cosa la si può dire: da due anni non è più Berlusconi a fare le scelte di governo, dato che egli si è limitato solo o ad avallarle a posteriori o a criticarle. Solo in un caso, la sospensione dell'IMU sulla prima casa, ha cantato vittoria imponendola agli alleati di governo. Poca cosa in verità.

Se quello riassume l'influenza di Berlusconi rispetto alle scelte di governo degli ultimi due anni, forse è giunto il momento di cominciare a fare un primo bilancio: a conti fatti cosa gli Italiani hanno guadagnato da quest'estromissione? Da fine 2011 il debito pubblico in percentuale del PIL è passato dal 120.8% al 132.27% (stima FMI), il tasso di disoccupazione era al 8.5% e oggi è al 12.5%: quattro punti secchi. Il PIL (che nel 2011 ha avuto una crescita, seppur simbolica, dello 0.375) nel 2012 è diminuito del 2.37% e quest'anno (sempre stima FMI) diminuirà di un altro 1.78%.

Il governo Monti, che con il decreto salva-Italia si proponeva di anticipare il pareggio di bilancio al 2013 ha lasciato al governo Letta un deficit al 3%. E c'era chi nel 2012 immaginava un inesistente effetto Monti.

Scrive oggi Angelo Panebianco sul Corriere della Sera a proposito della bocciatura da parte dell'UE della legge di stabilità:
non siamo ritenuti affidabili, credibili, il che ci rende deboli nelle negoziazioni, ci toglie la forza che sarebbe indispensabile per strappare condizioni a noi più favorevoli.
Nemmeno la tanto decantata credibilità, forse la principale keyword del gergo politico nel 2011, abbiamo (ri?)acquistato.

Ora Berlusconi presumibilmente si prepara a prendere le distanze dal governo Letta. Se non altro almeno la Camusso la smetterà di dargli pubblicamente la colpa. Suppongo però che sarà poco credibile quando la prossima volta tentasse di darla ad Alfano. Forse è tempo che qualcun altro cominci a sua volta ad assumersi le sue responsabilità.

venerdì 8 novembre 2013

Su Alitalia - 3

Ieri Matteo Renzi, ospite della trasmissione Servizio Pubblico, ha ricostruito a suo uso e consumo la vicenda della mancata vendita di Alitalia al gruppo Air France-KLM. In un paese senza memoria storica come il nostro anche questo è possibile. Fra le altre cose il sindaco di Firenze ha detto:
«Non si può dire che su Alitalia non è colpa di Berlusconi, ma della Cgil. Berlusconi ogni volta dà la colpa ad altri, ma ha fallito lui perché non ha fatto le cose, non perché c’erano gli altri a ostacolarlo»
«Alitalia il governo Prodi voleva darla ai francesi nel 2008. Per me era  un errore darla ai francesi. Bisognava andare verso i russi, il far east. Ma comunque Berlusconi bloccò l’operazione in nome della italianità»
A dire il vero il governo Prodi nel 2007 ci aveva provato a venderla ad Aeroflot. E pure ad Air China, ma il giovane sindaco di Firenze queste cose pare che non le sappia. E poi, se venderla ai Francesi era un errore, allora, quali che fossero le motivazioni, chi si oppose, secondo la logica di Renzi, aveva ragione ad opporsi.

Ma quel che è più grave è che Renzi ha descritto la vicenda in un modo che si può sintetizzare così:
  1. Il governo Prodi voleva vendere a Air France;
  2. A gennaio 2008 il governo cadde;
  3. Da quel momento il governo Prodi fu solo un esecutore delle volontà del dominus di fatto, Berlusconi, che, forte del favore dei sondaggi, di lì a poco avrebbe vinto le elezioni;
  4. Per cui, fra febbraio e marzo, contava solo la volontà di Berlusconi;
  5. Ergo è lui il responsabile di tutto.
E poi, per replicare a Maurizio Belpietro, che gli aveva fatto notare che fu l'opposizione dei sindacati, fra cui la CGIL, a far saltare la vendita a Air France, ha aggiunto la battutina:
«L’operazione Alitalia l’ha fatta la Camusso d’accordo con Berlusconi…»
Peccato che nel 2008 la Camusso non fosse a capo della CGIL (lo sarà a partire dal 3 novembre 2010), ma che ne fosse segretario Guglielmo Epifani. Il quale, come ha fatto notare recentemente Claudio Cerasa de Il Foglio, ebbe a dire a trattativa conclusa coi capitani coraggiosi:
“Si è raggiunta un’intesa complessiva assolutamente positiva, anche tenendo conto di alcuni chiarimenti e aggiunte”. (intervista al Corriere della Sera del 25 settembre 2008)
Lo stesso Epifani, sei mesi prima durante i giorni della trattativa, disse, sempre al Corriere della Sera, che la proposta di Air France era
«Un ricatto. Un triplo ricatto: al governo, al sindacato a Malpensa. Perché a tutti viene chiesto un sì obbligatorio. Nel senso che se uno risponde no o avanza altre proposte, allora diventa responsabile del fallimento della compagnia. Ma Air France, governo e Alitalia che hanno già concordato tutto tra loro, escludendo il sindacato, non possono pensare di scaricare su di noi la responsabilità delle sorti dell'azienda»
E fece questa contro-proposta:
«Il governo e l'azienda trovino il modo di garantire la vita dell'Alitalia per altri 60-70 giorni. Si avrebbero diversi vantaggi. Si potrebbe sviluppare il confronto oltre la data ultimatum del 31 marzo dettata da Spinetta. E si arriverebbe al nuovo governo. Il che ci metterebbe al riparo da ripensamenti rispetto a un eventuale accordo firmato prima delle elezioni. Non a caso lo stesso Spinetta pone la condizione di avere il via libera dal nuovo governo»
Il via libera del nuovo governo. Ma il 20 marzo nessuno sapeva quale sarebbe stato l'esito delle elezioni. I sondaggi sino ad allora pubblicati mostravano il PD in recupero rispetto al PDL e l'UDC di Casini (che era per la vendita a Air France) in ascesa. La media dei sondaggi indicava che il PDL non avrebbe preso la maggioranza anche al senato. Poi il 14 aprile a sorpresa arrivò anche la maggioranza al senato grazie alla vittoria anche in regioni come Lazio, Campania e Liguria, fino all'ultimo date appannaggio dell'avversario.


Va da sé che se il centrodestra non avesse avuto i numeri per governare da solo, Berlusconi avrebbe dovuto convincere l'alleato di governo ad appoggiare il suo piano alternativo. Cosa non scontata.

Torniamo alla ricostruzione di Renzi. I punti 3, 4 e 5 sono una balla colossale. Perché fra febbraio e marzo, nonostante Berlusconi avesse manifestato la propria contrarietà, Prodi e Padoa-Schioppa, assieme all'amministratore delegato di Alitalia Prato continuarono a trattare con l'amministratore delegato del gruppo Air France-KLM Spinetta.

Ora delle due l'una: o trattavano perché speravano di concludere l'accordo, e se lo speravano vuol dire che intendevano concluderlo nonostante l'opposizione di Berlusconi; oppure stavano solo perdendo tempo sapendo di perderlo.

Qualcuno di voi sarà tentato di dire che sia Prodi che Spinetta che i sindacati sapevano di fare qualcosa di inutile, dato che poi Berlusconi, una volta al governo, avrebbe mandato tutto all'aria. Sbagliato: l'11 febbraio il PDL dichiarò alla stampa estera che se il governo Prodi avesse concluso con Air France il futuro governo Berlusconi avrebbe onorato l'accordo, pur non condividendolo.

Il resto è storia nota: a fine marzo 2008 i sindacati non accettarono la proposta di Air France chiedendo invece di continuare a trattare, l'amministratore delegato di Alitalia si dimise e air France ritirò l'offerta. Al subentrante governo Berlusconi non restò che cercare di mettere assieme in breve tempo l'unica privatizzazione possibile che era rimasta: quella alla cordata italiana.