Se tu dici a qualcuno che è fascista o nazista, evidentemente lo stai insultando, dato che attribuisci alla sua persona, alle sue idee, ciò che la nostra società considera comunemente fra i peggiori disvalori umani. Eppure questi epiteti originariamente non erano insulti: se uno li avesse rivolti negli anni trenta sarebbe stato come dire oggi leghista o socialdemocratico, per dire.
Allo stesso modo c'è un significato originario del 25 Aprile, che è la vittoria militare degli Americani sui Tedeschi con ciò che ne conseguì: la pace, il cambio di regime (da una dittatura social-nazionalista a una democrazia occidentale) e il passaggio dalla sfera d'influenza tedesca (nazista) a quella americana. E c'è un significato d'uso comune, che ha trasformato quanto sopra nella celebrazione della resistenza rossa contro, non solo il fascismo, ma ciò che in seguito si è ad essa e alle sue aspirazioni frapposto, impedendo la presa del potere ai partiti espressione della stessa ideologia: il MSI, la DC, i partiti laici, poi i Radicali, poi il PSI di Craxi, fino a Berlusconi oggi. Al punto che andare a celebrare il 25 Aprile in un cimitero di soldati americani (gli USA in effetti fanno parte della suddetta lista) è considerata una provocazione.
Chiedere l'abolizione del 25 Aprile significa quindi, non tanto chiedere l'abolizione della ricorrenza che celebra la fine della guerra e il ritorno dell'Italia nell'occidente, nonché il sacrificio di soldati e partigiani che persero la vita per darci la libertà, ma significa smettere di celebrare una supposta guerra di popolo che negli auspici delle sue supposte avanguardie avrebbe dovuto determinare il passaggio dell'Italia, non "a occidente" ma "a oriente". E significa smettere di celebrare il rancore che è derivato dalla vanificazione di quegli obiettivi.
Detto questo, smettiamo anche una volta per tutte di dire che prima era una festa condivisa, e che è stato Berlusconi, sdoganando AN, a rompere le uova nel paniere: anche quello è un basso tentativo dialettico di legittimare una celebrazione che, per quel che è divenuta, non sta in piedi.
È sufficiente citare un passo dell'odiato Giampaolo Pansa, tratta dal libro La Grande Bugia a pagina 102:
«La sconfitta del Fronte nelle elezioni del 18 aprile aveva esasperato i partigiani comunisti. Sette giorni dopo il voto, ossia il 25 aprile 1948, accadde l'impensabile. A Milano si stava celebrando la liberazione. Tra gli oratori c'era Parri, accanto a Luigi Longo. I comunisti cominciarono a fischiarlo, per impedirgli di parlare. Allora Parri interruppe il discorso e scese dal palco. Lo riprese poi, e soltanto per le insistenze di Longo.»Capito? Il 25 Aprile 1948 (e non 1994) fu impedito di parlare persino a Ferruccio Parri, antifascista, partigiano, nonché capo del primo governo dopo la liberazione, e non certo uomo di sdoganamenti o revisionismi.
Ecco, credo che queste mie parole bastino a spiegare perché la maggioranza degli Italiani non si riconosce nelle celebrazioni, di cui legge e vede i resoconti su giornali e tv, che hanno egemonizzato il 25 Aprile al punto da esserne divenute a pieno titolo l'essenza stessa. Se essa non è la festa di tutti gli Italiani, è legittimo chiederne l'abolizione.