sabato 23 ottobre 2010

La mancata rivoluzione liberale

Molti ex-PDL o ex-Forza Italia o ex-centro-destra criticano oggi Berlusconi per non aver fatto la rivoluzione liberale promessa sin dal 1994 e mai attuata.

Il problema è che la maggior parte di coloro che se ne lamentano non sanno di cosa parlano, ovvero: sanno a grandi linee cosa vogliono ottenere, ma non sanno cosa sono disposti a pagare pur di ottenerlo. E lo stesso discorso lo si può purtroppo fare per la maggior parte degli elettori.

Facciamo un esempio concreto: è notizia di questi giorni la legge finanziaria con cui il governo britannico taglierà la spesa pubblica di 92 miliardi di euro, facendola passare in quattro anni dall'attuale 43.7% al 38.4% del PIL.

Fra le misure c'è l'innalzamento dell'età pensionabile a 66 anni per uomini e donne, il taglio di 20 miliardi di euro al welfare (si pensi che Bersani aveva chiesto a Tremonti lo stanziamento di 9 miliardi per attivare in Italia un buon sussidio di disoccupazione), 490 mila posti di lavoro nel settore pubblico (qualcosa tipo il 7-8% del totale) saranno cancellati, un taglio medio ai bilanci dei ministeri del 19% (con le sole eccezioni della sanità e dell'istruzione).

Bene, immaginate ora che il governo Berlusconi proponga qualcosa di simile: sarebbe il grande passo verso la rivoluzione liberale. Chi la reclama chiede infatti l'abbassamento delle tasse sul reddito (i redditi lordi italiani di 75.000 euro sono già i più tassati al mondo), l'abolizione dell'IRAP e di balzelli vari. Poi occorre cominciare una buona volta a ridurre il debito pubblico.

Per raggiungere quegli obiettivi le misure non potrebbero essere che qualcosa di simile a quanto proposto in GB: tagli alla spesa pubblica. Ovviamente, mutatis mutandis, dato che sussidi di disoccupazione da tagliare da noi non ce ne sono, occorrerebbe ad esempio rimettere il ticket sanitario.

Ridurre poi i dipendenti pubblici di mezzo milione appare difficile, dato che da noi non possono essere licenziati. Diciamo allora che venga stabilito il blocco totale delle assunzioni per i prossimi cinque anni con riduzione degli stipendi del 5% (ma basterebbe?).

In GB poi il bilancio della difesa verrà ridotto dell'8%. Ma anche lì da noi non ci sono i margini, per cui occorrerebbe tagliare altrove. Tipo riducendo la cassa integrazione.

Poi occorrerebbe trovare le risorse (leggi: altri tagli) per tagliare l'IRAP, per mettere la doppia flat tax che era nel programma di Forza Italia del 1994). Quindi basta trasferimenti all'INPS, alle FFSS, basta finanziamenti al sud...

Ecco, immaginate che venga proposto tutto ciò: quello sarebbe l'inizio della rivoluzione liberale, quella auspicata non soltanto da Antonio Martino e Benedetto Della Vedova, ma evocata da Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Paolo Guzzanti e così via. Che cosa accadrebbe l'indomani dell'approvazione in Consiglio dei Ministri? Lo scenario più probabile è che:
  • la sinistra insorgerebbe gridando alla macelleria sociale
  • il fronte sindacale CGIL-CISL-UIL si ricompatterebbe esigendo il ritiro immediato della proposta
  • vi sarebbero scioperi e manifestazioni di dipendenti pubblici, privati e studenti. Il sistema logistico stesso del paese verrebbe messo alle corde
  • la Confindustria sarebbe la prima a cedere, chiedendo al governo di assicurare la pace sociale, la stampa terzista si accoderebbe, e probabilmente anche il presidente della repubblica e la chiesa cattolica inviterebbero il governo a mediare fra le esigenze del rigore e quelle della giustizia sociale
  • tutto ciò si rifletterebbe in un calo della maggioranza nei sondaggi, e i sopracitati politici "liberali" sarebbero i primi a defilarsi
    Il resto lo potete immaginare.

    Il problema è che vi sono tante categorie in Italia che ricevono privilegi che sarebbero toccati da questa proposta. Tradotto in numeri si tratta di qualche milione di persone: circa quattro milioni di dipendenti pubblici e parapubblici, circa mezzo milione di persone in cassa integrazione (e un imprecisato numero di lavoratori che potenzialmente potrebbero divenirlo e che pertanto non vorrebbero perdere quella garanzia di sostegno), un imprecisato numero di persone il cui lavoro dipende dall'erogazione di contributi pubblici, tutti quelli che vorrebbero andare in pensione senza attendere i 66 anni, tutti quelli a basso reddito che non vorrebbero pagare il ticket sanitario, nonché i familiari di tutti costoro. In pratica mezza Italia, fra cui gente che vota per il centro-destra, sarebbe nei fatti contraria a questa rivoluzione liberale.

    Non è che Berlusconi da sedici anni non attua la rivoluzione promessa per il gusto di attirarsi le critiche dei liberali. Fa così perché sa che i margini di manovra sono molto esigui. E sa che se si lanciasse in un tentativo kamikaze come quello appena esposto il risultato sarebbe una via di mezzo fra ciò che accadde nel 1994 al suo governo e quello che sta accadendo in questi giorni in Francia.

    Il fatto che la situazione economica di molti Italiani dipenda in qualche misura dallo statalismo complica il compito di riformare il paese in senso liberale. Oltre a ciò, pur essendo la situazione tutt'altro che rosea, il paese è pur sempre relativamente benestante. Questo fatto disincentiva la gente a fare i sacrifici necessari a cambiare il paese.

    Data questa situazione, paradossalmente occorrerebbe che la situazione economica peggiorasse di brutto, di modo che in pochi avrebbero voglia di scendere in piazza per difendere l'attuale sistema statalista. Ovviamente è uno scenario non auspicabile. E inoltre, come è accaduto dopo la crisi in Argentina, non è detto che quella situazione farebbe andare il paese nella direzione auspicata.

    Un'ultima considerazione: nel solo paese latino in cui è stata fatta una rivoluzione liberale (rectius: liberista) ciò è avvenuto perché il governo non doveva preoccuparsi dei sondaggi d'opinione. Noi il Chicago Boy ce l'avremmo anche, ma il suo dante causa -come detto- non può garantirgli i pieni poteri.



    P.S.: Gianfranco Fini, che per Benedetto Della Vedova è il nuovo leader liberale che dovrebbe guidare l'Italia, e che come detto rinfaccia a Berlusconi di non avere attuato la rivoluzione liberale, propone oggi di alzare la tassazione delle "rendite finanziarie" dal 12.5% al 24-25%. Come una Serracchiani qualunque.

    venerdì 22 ottobre 2010

    I probiviri e i metodi "staliniani"

    Leggo che anche l'UDC, avrebbe deferito uno dei suoi iscritti, il parlamentare Michele Pisacane, ai probiviri. A Pisacane l'UDC rimprovera un'intervista che La Repubblica riassume così: "sto nell'Udc, tratto col Pd e forse voto Pdl". Secondo Lorenzo Cesa, segretario dell'UDC, quelle parole avrebbero danneggiato l'immagine del partito. Per questi motivi ne chiede l'espulsione.

    Nel 2008 il PD deferì Riccardo Villari ai probiviri, che in quel partito prendono il nome di Commissione Nazionale di Garanzia. La quale commissione decise di espellere Villari, reo di non volersi dimettere alla presidenza della Commissione di Vigilanza sulla RAI, alla quale era stato eletto con (prevalentemente) i voti del PDL, per fare posto al candidato designato dal partito. Detto comportamento, secondo i probiviri del PD, violava i "principi di correttezza che lo Statuto ed il Codice Etico richiedono ai suoi iscritti ed eletti", nonché, anche in questo caso, era ritenuto "gravemente lesivo dell’immagine del PD".

    Altri casi di espulsione dai partiti li trovate narrati qui.

    Villari definì la sua espulsione "staliniana". Lo stesso aggettivo lo ha usato Fini quest'estate a proposito della sua uscita dal PDL. Nel caso di Villari va detto che ci fu un dettaglio grottesco che ricordò davvero le purghe staliniane: Villari non solo fu espulso, ma il suo nome fu pure cancellato dall'elenco dei fondatori del PD, allo stesso modo in cui i trotzkisti, una volta che furono caduti in disgrazia, venivano cancellati dall'iconografia ufficiale dell'URSS.

    Ma ha titolo Fini di evocare il trattamento staliniano, oppure lui sta fra gli epurati come un imbucato in una festa? Per rispondere occorre chiarire i presupposti: chi entra nei partiti ne accetta i regolamenti interni. I quali prevedono che si debba tenere un certo tipo di comportamento, la cui inosservanza è sanzionabile da un collegio arbitrale interno chiamato appunto "probiviri".

    Viene allora da chiedersi se dette espulsioni siano giustificate o meno. E prima ancora se lo siano i deferimenti. E, nel caso di Fini, dato che non vi sono stati né espulsione né deferimento, se le affermazioni dell'Ufficio di Presidenza del PDL che dichiaravano che i comportamenti tenuti da Fini erano incompatibili coi principi ispiratori del PDL siano legittime o abbiano un contenuto prevaricatore.

    L'ufficio di presidenza di un partito avrà pure il diritto di esprimere giudizi senza per quello essere tacciato di stalinismo. Oppure ritiene Fini di avere diritto di dire quel che gli pare senza che il partito al quale ha aderito e alle cui regole comportamentali egli ha liberamente scelto di conformarsi possa eccepire alcunché?

    Questo per quel che riguarda Fini. Bocchino, Granata e Briguglio sono stati invece deferiti ai probiviri, e il loro caso dovrebbe essere esaminato nei prossimi giorni. Chi ha ragione? Sarebbe opportuno che al giudizio venisse data la massima pubblicità possibile. Che venissero pubblicati i capi d'imputazione, e che gli imputati prendessero posizione nello specifico. Affinché tutti possano giudicare chi ha ragione e chi ha torto.

    Invece i tre annunciano di non volersi neppure difendere, dato che ritengono di non essere più nel PDL, pertanto non più tenuti al rispetto delle sue regole interne e quindi non soggetti alla sua giustizia interna. Ma così facendo danno implicitamente ragione a chi li accusava di aver agito da avversari del PDL pur stando all'interno del PDL. Così dicendo accettano implicitamente il contenuto dell'accusa. Perché il giudizio ha ad oggetto comportamenti tenuti quando loro stavano ancora nel PDL ed accettavano di poter essere giudicati dai probiviri. E un conto è dire che non hanno fiducia nell'indipendenza di giudizio dei probiviri, che potrebbero essere sospettati di conformarsi al volere di Berlusconi, un altro è non mettere in discussione l'indipendenza dei probiviri, ma chiamarsi fuori dal gioco e dalle sue regole.

    A questo punto occorre che i finiani ammettano che quando stavano ancora nel PDL ci stavano con una riserva mentale: quella di non accettarne né le regole interne, né l'autorità degli organi preposti al loro rispetto. E neppure che chi dirigeva il partito potesse censurare un eventuale loro comportamento antitetico.

    Alla luce di queste considerazioni qualcuno crede ancora che Fini sia stato cacciato con metodi staliniani?

    mercoledì 20 ottobre 2010

    "Andate a controllare su Internet!"

    La puntata di Ballarò di ieri sera ospitava ancora una volta Bondi e Di Pietro, la nota saliente venente proprio da quest'ultimo, quando, nel contestare le ricostruzioni storiche fatte da Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, sulle cause delle cadute dei governi Berlusconi nel 1994 e Prodi nel 2008, ha iniziato a sbraitare che si trattava di falsità, invitando la gente a controllare su Internet.

    Sì, "a controllare su Internet" sono state le sue parole esatte. Come se Internet fosse il luogo dove è depositata la verità assoluta. Sallusti sosteneva che nel 1994 l'avviso di garanzia (rectius: l'avviso di comparizione) recapitato a Berlusconi a Napoli, mentre presiedeva una conferenza internazionale sul crimine ed era sotto i "riflettori" delle televisioni di mezzo mondo, fosse stata la causa che determinò la caduta del governo. Di Pietro sosteneva invece che fosse caduto sulla riforma delle pensioni.

    Sul governo Prodi stessa storia: Sallusti sosteneva che il governo Prodi fosse caduto a causa di inchieste giudiziarie fra cui quella di De Magistris denominata "Why Not?", inchiesta che in sede di udienza preliminare sarebbe stata, per usare un eufemismo, ridimensionata. Anche qui Di Pietro contestava che l'inchiesta che determinò la caduta fosse invece un'altra.

    In realtà è ovvio che le inchieste giudiziarie formalmente non abbiano il potere di far cadere i governi, ma i loro effetti possono determinare nei soggetti politici la volontà di farli cadere o meno. Il governo Berlusconi cadde perché fu votata una mozione di sfiducia, quello Prodi perché non fu votata una mozione di fiducia.

    Cosa indusse realmente la Lega nel 1994 e Mastella nel 2008 a ritirare l'appoggio è materia se vogliamo di dibattito storico recente. Di certo, anche se Internet può aiutare a ricostruire la cronologia dei fatti, non è Internet a dirci tutta la verità, che è formata dai fatti noti e dai retroscena, che in quanto tali non sono a portata di un qualsiasi utonto capace di fare una ricerca su Google.

    Abbiamo il "popolo di Internet", che altro non è che un gruppo di gente che invece di passare il suo tempo libero davanti alla tv o leggendo i giornali, legge (e commenta sui forum ripetendo a pappagallo) quello che gli propinano i suoi siti di riferimento. Ora abbiamo Internet che attesterebbe la verità storica, con gli imbarazzanti corollari che ciò che non vi si trova è come se non fosse mai avvenuto, e ciò che è scritto su Wikipedia viene considerato la verità rivelata.

    Il popolo del Coglionistan è tutto qui nel testo che avete appena letto. E ieri è stato evocato da Di Pietro a Ballarò.

    sabato 9 ottobre 2010

    Un nuovo governo, una nuova legge elettorale

    La linea politica del PD è, secondo quanto dichiarato da Bersani, di andare a un "breve governo di transizione con al primo punto una legge elettorale". Non si tratta di una dichiarazione isolata, ma di una linea confermata durante l'estate da altri esponenti del suo partito. Da Marino, che propone di fare un "Governo per cambiare legge elettorale e poi voto", e da Fassino, che dice: "Non vogliamo un ribaltone, ma un governo con un solo obiettivo: cambiare la legge elettorale".

    La domanda è: perché per votare una nuova legge elettorale il PD pensa di dover formare un nuovo governo? Non sarebbe più logico che facesse la sua proposta di riforma o che cercasse un compromesso sul tema in parlamento, senza bisogno di aprire una crisi di governo? Dopo tutto le leggi le fa il parlamento e non il governo.

    Ovviamente quello che il PD non dice è che non vuole negoziare l'ipotetica legge elettorale con l'attuale maggioranza (o parte di essa) rimanendo all'opposizione, ma vuole formarne una nuova. Il che, tradotto in un linguaggio semplice, vuol dire che propone un ribaltone.

    Oltre a ciò la posizione del PD è insostenibile, perché il PD stesso non sa quale legge elettorale vuole. Dire di non volere la legge attuale perché sarebbe "una porcata" non è sufficiente: occorre dire quale altro tipo di legge elettorale si vuole. E lì casca l'asino, perché nel PD c'è chi come D'Alema che vuole il sistema tedesco (cioè una proporzionale), chi come Veltroni che vuole il sistema francese (cioè un maggioritario a due turni) e altri che vorrebbero il ritorno alla legge Mattarella.

    Quindi, anche qualora venisse fatto questo nuovo governo, esso sarebbe antidemocratico per due ragioni: la prima perché sovvertirebbe le elezioni del 2008 e la seconda perché la ragione prima della sua formazione (la riforma elettorale) sarebbe avvolta nel mistero fintanto che le fazioni al potere non raggiungessero un accordo.


    Sarebbe maggiormente rispettoso della democrazia che il PD prima si chiarisse le idee su quale sistema elettorale vuole (e che lo facesse una volta per tutte), che lo mettesse nero su bianco, e che prendesse posizione durante una campagna elettorale. Davanti alla gente. Ciò affinché la gente abbia la possibilità di dire la sua, e non di assistere da sudditi allo spettacolo dei politicanti.

    domenica 3 ottobre 2010

    Comitato di redazione? No, calci in culo!

    Il 2 e 3 ottobre 2010 il Corriere della Sera non è uscito a causa di uno sciopero dei suoi giornalisti. Sai che novità, qualcuno potrebbe dire: a volte capita che nel Coglionistan i giornalisti facciano sciopero. Capita per esempio che a scioperare siano tutti i giornalisti. In quel caso il telegiornale RAI va in onda in forma succinta (il che volendo è anche un bene, dato che il prodotto ne guadagna in concisione) "e senza servizi in video e voce" (cito a memoria una formula udita varie volte). Dopo di che il giornalista che appare in video, che non è l'usuale conduttore del telegiornale, ma il tipico panzone (nell'accezione brunettiana del termine) sindacalizzato, declama di essere lì in quanto autorizzato dal comitato di redazione. E già qui uno potrebbe dire "e a noi che ce ne frega del perché e del percome sei proprio tu ad essere in video?".

    Ma quello che è peggio è che il panzone prosegue leggendo il comunicato del famigerato comitato di redazione. Ancora una volta non si capisce cosa al telespettatore gliene possa fregare delle vertenze fra i giornalisti e gli editori (anche se i giornalisti, oltre che per il vile denaro, dicono sempre di scioperare per tutelare i nobili diritti d'informazione dei cittadini): forse che quando a scioperare è un'altra categoria i telegiornali ritengono utile o interessante leggerne i comunicati?

    Ciò ad ogni modo è utile per rendere edotti i cittadini del Coglionistan che in ogni giornale c'è un comitato di redazione. Wikipedia ci dice che esso serve a tutelare "i diritti morali e materiali derivanti ai redattori dal contratto di lavoro e dalla legge". Uno pensa che per tutelare i propri diritti (materiali) ci siano i tribunali civili. Invece i giornalisti usano questa specie di soviet. E i diritti "morali"? Suppongo non abbiano niente a che vedere col diritto d'autore, ma che siano pretese di varia natura (non economica) dei giornalisti.

    Un esempio di pretese dei giornalisti è dato appunto dalo sciopero di questi giorni al Corriere della Sera. Lì il CdR ha fatto il suo comunicato in cui stigmatizza che "invitati a un tavolo di trattativa sulla multimedialità, i componenti del Cdr non hanno trovato nemmeno un inizio di confronto, ma soltanto una lettera" che "elencava già i risultati che una pseudo-negoziazione avrebbe dovuto raggiungere". E quali sono questi risultati che il Corriere pretende? Li elenca il suo direttore, Ferruccio De Bortoli:

    Non è più accettabile che parte della redazione non lavori per il web o che si pretenda per questo una speciale remunerazione. Non è più accettabile che perduri la norma che prevede il consenso dell'interessato a ogni spostamento, a parità di mansione. Prima vengono le esigenze del giornale poi le pur legittime aspirazioni dei giornalisti. Non è più accettabile che i colleghi delle testate locali non possano scrivere per l'edizione nazionale, mentre lo possono tranquillamente fare professionisti con contratti magari per giornali concorrenti. Non è più accettabile l'atteggiamento, di sufficienza e sospetto, con cui parte della redazione ha accolto l'affermazione e il successo della web tv. Non è più accettabile, e nemmeno possibile, che l'edizione Ipad non preveda il contributo di alcun giornalista professionista dell'edizione cartacea del Corriere della Sera. Non è più accettabile la riluttanza con la quale si accolgono programmi di formazione alle nuove tecnologie. Non è più accettabile, anzi è preoccupante, il muro che è stato eretto nei confronti del coinvolgimento di giovani colleghi.
    De Bortoli prosegue con una considerazione di buon senso:
    continuando così, non c'è più futuro per la nostra professione. E, infatti, vi sfido a contare in quanti casi sulla Rete è applicato il contratto di giornalista professionista.
    La risposta dei panzoni giornalisti del Corriere della Sera? Eccola qui:
    L'assemblea dei giornalisti ha votato due giorni di sciopero immediato e ha consegnato al Comitato di Redazione un pacchetto di ulteriori cinque giorni per rispondere all'attacco che il Direttore ha mosso contro le tutele e le regole che garantiscono la libertà del loro lavoro e, di conseguenza, l'indipendenza dell'informazione che il giornale fornisce.
    Cioè il datore di lavoro, vista la crisi del settore, gli offre la possibilità di fare dei corsi gratis di tecnologie multimediali, che gli darebbero la possibilità di (ri)qualificarsi, e questi proclamano due giorni di sciopero immediato, minacciandone altri cinque. E hanno la faccia di dire che combattono per "l'indipendenza dell'informazione".

    Mi viene da sorridere se penso che il celebre libro La Casta è stato scritto proprio da due giornalisti del Corriere della Sera...