Il problema è che la maggior parte di coloro che se ne lamentano non sanno di cosa parlano, ovvero: sanno a grandi linee cosa vogliono ottenere, ma non sanno cosa sono disposti a pagare pur di ottenerlo. E lo stesso discorso lo si può purtroppo fare per la maggior parte degli elettori.
Facciamo un esempio concreto: è notizia di questi giorni la legge finanziaria con cui il governo britannico taglierà la spesa pubblica di 92 miliardi di euro, facendola passare in quattro anni dall'attuale 43.7% al 38.4% del PIL.
Fra le misure c'è l'innalzamento dell'età pensionabile a 66 anni per uomini e donne, il taglio di 20 miliardi di euro al welfare (si pensi che Bersani aveva chiesto a Tremonti lo stanziamento di 9 miliardi per attivare in Italia un buon sussidio di disoccupazione), 490 mila posti di lavoro nel settore pubblico (qualcosa tipo il 7-8% del totale) saranno cancellati, un taglio medio ai bilanci dei ministeri del 19% (con le sole eccezioni della sanità e dell'istruzione).
Bene, immaginate ora che il governo Berlusconi proponga qualcosa di simile: sarebbe il grande passo verso la rivoluzione liberale. Chi la reclama chiede infatti l'abbassamento delle tasse sul reddito (i redditi lordi italiani di 75.000 euro sono già i più tassati al mondo), l'abolizione dell'IRAP e di balzelli vari. Poi occorre cominciare una buona volta a ridurre il debito pubblico.
Per raggiungere quegli obiettivi le misure non potrebbero essere che qualcosa di simile a quanto proposto in GB: tagli alla spesa pubblica. Ovviamente, mutatis mutandis, dato che sussidi di disoccupazione da tagliare da noi non ce ne sono, occorrerebbe ad esempio rimettere il ticket sanitario.
Ridurre poi i dipendenti pubblici di mezzo milione appare difficile, dato che da noi non possono essere licenziati. Diciamo allora che venga stabilito il blocco totale delle assunzioni per i prossimi cinque anni con riduzione degli stipendi del 5% (ma basterebbe?).
In GB poi il bilancio della difesa verrà ridotto dell'8%. Ma anche lì da noi non ci sono i margini, per cui occorrerebbe tagliare altrove. Tipo riducendo la cassa integrazione.
Poi occorrerebbe trovare le risorse (leggi: altri tagli) per tagliare l'IRAP, per mettere la doppia flat tax che era nel programma di Forza Italia del 1994). Quindi basta trasferimenti all'INPS, alle FFSS, basta finanziamenti al sud...
Ecco, immaginate che venga proposto tutto ciò: quello sarebbe l'inizio della rivoluzione liberale, quella auspicata non soltanto da Antonio Martino e Benedetto Della Vedova, ma evocata da Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Paolo Guzzanti e così via. Che cosa accadrebbe l'indomani dell'approvazione in Consiglio dei Ministri? Lo scenario più probabile è che:
- la sinistra insorgerebbe gridando alla macelleria sociale
- il fronte sindacale CGIL-CISL-UIL si ricompatterebbe esigendo il ritiro immediato della proposta
- vi sarebbero scioperi e manifestazioni di dipendenti pubblici, privati e studenti. Il sistema logistico stesso del paese verrebbe messo alle corde
- la Confindustria sarebbe la prima a cedere, chiedendo al governo di assicurare la pace sociale, la stampa terzista si accoderebbe, e probabilmente anche il presidente della repubblica e la chiesa cattolica inviterebbero il governo a mediare fra le esigenze del rigore e quelle della giustizia sociale
- tutto ciò si rifletterebbe in un calo della maggioranza nei sondaggi, e i sopracitati politici "liberali" sarebbero i primi a defilarsi
Il problema è che vi sono tante categorie in Italia che ricevono privilegi che sarebbero toccati da questa proposta. Tradotto in numeri si tratta di qualche milione di persone: circa quattro milioni di dipendenti pubblici e parapubblici, circa mezzo milione di persone in cassa integrazione (e un imprecisato numero di lavoratori che potenzialmente potrebbero divenirlo e che pertanto non vorrebbero perdere quella garanzia di sostegno), un imprecisato numero di persone il cui lavoro dipende dall'erogazione di contributi pubblici, tutti quelli che vorrebbero andare in pensione senza attendere i 66 anni, tutti quelli a basso reddito che non vorrebbero pagare il ticket sanitario, nonché i familiari di tutti costoro. In pratica mezza Italia, fra cui gente che vota per il centro-destra, sarebbe nei fatti contraria a questa rivoluzione liberale.
Non è che Berlusconi da sedici anni non attua la rivoluzione promessa per il gusto di attirarsi le critiche dei liberali. Fa così perché sa che i margini di manovra sono molto esigui. E sa che se si lanciasse in un tentativo kamikaze come quello appena esposto il risultato sarebbe una via di mezzo fra ciò che accadde nel 1994 al suo governo e quello che sta accadendo in questi giorni in Francia.
Il fatto che la situazione economica di molti Italiani dipenda in qualche misura dallo statalismo complica il compito di riformare il paese in senso liberale. Oltre a ciò, pur essendo la situazione tutt'altro che rosea, il paese è pur sempre relativamente benestante. Questo fatto disincentiva la gente a fare i sacrifici necessari a cambiare il paese.
Data questa situazione, paradossalmente occorrerebbe che la situazione economica peggiorasse di brutto, di modo che in pochi avrebbero voglia di scendere in piazza per difendere l'attuale sistema statalista. Ovviamente è uno scenario non auspicabile. E inoltre, come è accaduto dopo la crisi in Argentina, non è detto che quella situazione farebbe andare il paese nella direzione auspicata.
Un'ultima considerazione: nel solo paese latino in cui è stata fatta una rivoluzione liberale (rectius: liberista) ciò è avvenuto perché il governo non doveva preoccuparsi dei sondaggi d'opinione. Noi il Chicago Boy ce l'avremmo anche, ma il suo dante causa -come detto- non può garantirgli i pieni poteri.
P.S.: Gianfranco Fini, che per Benedetto Della Vedova è il nuovo leader liberale che dovrebbe guidare l'Italia, e che come detto rinfaccia a Berlusconi di non avere attuato la rivoluzione liberale, propone oggi di alzare la tassazione delle "rendite finanziarie" dal 12.5% al 24-25%. Come una Serracchiani qualunque.